Il ristorante si vesta (bene) da ristorante, non si travesta da casa. Oppure faccia come Perbellini

Fa parte del mio lavoro quotidiano leggere i comunicati in arrivo dagli uffici stampa dei ristoranti. Annunciano aperture, cambi stagionali di menu, avvicendamenti al comando della cucina, eventi speciali eccetera.Come potete immaginare, non mi riferisco a trattorie sotto i venti euro. Nei messaggi che comunicano una nuova apertura, ricorrono frasi come:I clienti verranno coccolati come a casa" o “si sentiranno in famiglia”.
Ma stiamo scherzando? Se vado in uno di questi ristoranti, non voglio sentirmi per niente a casa mia, dove non sono servito e riverito da nessuno e se ho il desiderio di una sorpresa gastronomica devo farmela da solo. Certo, se sto in giro per lungo tempo può succedere che mi venga voglia sentirmi a casa. Allora vado in trattoria, dove tutto è autenticamente familiare visto che nove volte su dieci in cucina c’è la mamma o il papà e in sala il resto della tribù. Qui vanno bene i modi spicci del cameriere, le battute di spirito, la tv accesa, l’illuminazione centrale e la credenza in laminato anni ‘60. Non dico che nei locali di rango ambiente e servizio debbano essere ingessati ma devono essere altamente professionali, cosa che difficilmente va d’accordo con la vera familiarità. Un maître che distribuisca pacche sulle spalle è poco credibile proprio come la credenza ottocentesca fresca di restauro (evoluzione ricca di quella di modernariato) messa lì a “fare casa”. In un ristorante di livello, quel pezzo di antiquariato domestico dichiara la sua origine di oggetto intimo del ristoratore strappato dal privato e innestato nel pubblico.

Nelle sale di ristoranti stellati ho visto inutili angoli-lettura con tavolinetti colmi di libri cattura-polvere, caminetti pieni di fiori secchi e tanto di sedia a dondolo perennemente immobile. Ho visto toilette arredate con comodini impero, antiche macchine da cucire a pedale e perfino gallery di disegni di bambini a tema “la mia famiglia”. La mia reazione andava dall’ "e chi se ne frega" al fastidio. E che diamine! Sono cose personali del patròn e lui  può impormeli se mi invita a mangiare a casa sua, non se sono un suo cliente.

Perché mai un ristorante dovrebbe ricordare una casa dove troppe volte si mangia male e spesso si litiga a tavola? Perché si vuole riportare l'avventore in un luogo dal quale ha voluto evadere? Dal punto di vista psicologico, simboli e atteggiamenti familiari forzano la mente in direzione centripeta, ripiegandola verso il sé, l’intimo, il consueto. Chi mi propone un’esperienza gastronomica, invece, dovrebbe farle prendere la tangente in direzione centrifuga.
Un ristorante deve ricordare un ristorante non una casa. Si distingua dagli altri, ma aguzzando l'ingegno, proprio o degli arredatori, senza ricorrere al tocco personale del pitale-cache-pot per la pianta di felce.

L'altra eccezione, oltre la già citata trattoria, è il ristorante sperimentale come Casa Perbellini a Verona, un concept studiato come un reality che riproduce seriamente, e non con citazioni sporadiche di una vecchia frau, una ipotetica casa dello chef dove la cucina diventa il palcoscenico della brigata. Lì non si è “fatto casa” con la semplice aggiunta del canterano della nonna ma con un congruo investimento di capitali e idee.

 

 

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