Magari la tua cucina è glocal come quella di Ducasse e tu non lo sai

Ezio Gritti

Mettiamo che, pensando a un nuovo piatto, la tua memoria fatalmente torni a ricette e a prodotti della tua terra. E che allo stesso tempo la tua mano vada sulla tastiera del computer per cliccare sull’indirizzo del tuo food service internazionale di fiducia. Se il tuo progetto è di inserire carciofi e piselli di un orto vicino nello schema compositivo di una ricetta lontana, o di ibridarli con altri prodotti esotici, allora compiresti un’operazione che i sociologi chiamano di glocalizzazione.

La parola Glocalism è un neologismo creato in Giappone e poi tradotto in inglese dal sociologo Roland Robertson per modulare il termine “globalizzazione”. Le volte in cui questo termine non si esprime nella modalità aggressiva di una cosa identica in tutto il mondo ma ha la buona grazia di adeguarsi al locale, il risultato non è quello di un prodotto industriale uguale dappertutto, ma di una creazione artigianal-culturale nuova e unica, con il globale e il locale che sono le due facce della stessa medaglia.

Mutevole ed estremamente personalizzata, la cucina di questo momento storico è più liquida che solida. Naturalmente è una metafora: non mi riferisco a ciò che si trova nel piatto, ma a quanto succede dentro la testa del cuoco in continuo, fluido movimento. Aperta come non mai al mondo, è sollecitata da un numero esagerato di stimoli che vengono da lontano e allo tesso tempo è sottoposta al dictat del chilometro zero.
Se ti riconosci in queste parole, forse la tua cucina è glocal, come quella di Alain Ducasse che qualche tempo fa ha dichiarato: "Sono glocal: la visione è globale, l’espressione è locale". 

 

 

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