Il Chilometro Zero? Un’esagerazione! È “Glocale” la parola che i cuochi dovrebbero tenere a mente

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Negli anni ottanta – quindi più recentemente di quanto normalmente si creda – dopo la Francia anche l’Itali ha cominciato a scoprire il “Territorio”. Un nuovo orizzonte che ha portato alla conoscenza, valorizzazione e circolazione dei nostri innumerevoli prodotti di nicchia e dei piatti preparati con questi ingredienti. Dopo lo smisurato successo dovuto soprattutto alla tv degli anni 60 e 80 che pubblicizzava cibi nazional-global-industriali, formaggi e formaggini uguali a Tarvisio come a Pantelleria, salami e salamini standard, è arrivato il momento del manufatto artigianale, spesso con il nome di un luogo nella denominazione, addirittura identitario. Il prodotto locale ha cominciato a circolare, essere conosciuto, usato e apprezzato anche lontano dal posto di origine: è così che è nato l’equivoco del Chilometro Zero, lungamente maturato fino a imporsi in questo secondo decennio degli anni duemila anche in modo esagerato e poco realistico come un’ideologia o una pratica mistica radicale.

Intendiamoci: filiera corta sì, e se è cortissima meglio ancora. Perché dovrei usare un pomodoro cinese al posto del mio tranne che per risparmiare due lire? Ma solo quando è possibile e con giudizi. Al di là di slogan populisti-attira clienti. Vorremmo forse negare il parmigiano reggiano a napoletani e siciliani che l’hanno inserito da più di secolo in alcune delle loro più note preparazioni (timballi, arancine)? Vogliamo negare la cucina mediterranea a chi vive dall’Emilia in su?

Ormai i cuochi meridionali usano molto volentieri la pasta fresca all’uovo di tradizione settentrionale, il riso della Lombardia e l’aceto balsamico tradizionale di Modena e  questi prodotti vengono coniugati a quanto offre il territorio. Allo stesso modo, i loro colleghi del nord hanno cominciato a usare la pasta di grano duro artigianale, i caciocavalli, le bottarghe di muggine e di tonno, i ricci di mare, il sale marino delle saline trapanesi. Anche i metodi e gli strumenti di cottura sono entrati virtuosamente in un circuito di scambio: al nord le cotture lentissime in olio extravergine di oliva, al sud sono state scoperte le virtù della pietra ollare.
Fusion nazionali che devono essere equilibrate e puntare al palato e non alla meraviglia. Cosa ch e purtroppo ha imparato a fare la cucina super-local a chilometro zero che pur di usare il prodotto locale non esita a combinare pasticci. Un esempio? Ve lo mando proprio dalla mia Sicilia: il dolcissimo latte di mandorla messo nella pasta con le sarde.

Al principio del Chilometro Zero andrebbe contrapposto quello realistico del Glocalismo, un neologismo creato in Giappone e poi tradotto in inglese dal sociologo Roland Robertson, per modulare il termine “globalizzazione” quando questa non si esprime nella modalità violenta del prodotto industriale identico in tutto il mondo ma ha la buona grazia di adeguarsi, anche perché è soprattutto un prodotto artiginal-culturale, al luogo che raggiunge rendendo il globale e il locale facce della stessa medaglia.

Non mancano esempi storici di glocalizzazioni di successo. Polenta Lombardo-Veneta, Spaghetti ca’ Pummaola, Peperonata Piemontese, ‘Nduia Calabrese” e Gnocchi Veronesi significano rispettivamente mais, pomodoro, peperone, peperoncino e patata. Piatti italianissimi, fatti con ingredienti che molti ormai assimilano agli autoctoni ma in origine a chilometro zero come un lama.

 

 

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