Metti un rifugiato in brigata

L'integrazione dei migranti passa attraverso progetti di formazione spesso affidati a volontari e al found rising. La mappa degli imprenditori stranieri che ce l'hanno fatta e tre casi eccellenti.

Le ricerche in materia di migrazione ci dicono che molte delle persone che fuggono dall’Africa o dal medio Oriente, provengono da piccoli villaggi. Per molti di loro il settore agricolo rappresenta qui da noi un possibile ambito d’inserimento sociale e lavorativo. Altri, coloro che arrivano da grandi città, dimostrano un forte interesse per la ristorazione. Ma per poter operare nei locali del nostro Paese necessitano di formazione, poiché le normative igienico sanitarie e l’organizzazione del lavoro sono, qui, completamente diversi. E le realtà che in Italia operano in questo senso non mancano.

La scelta motivazionale delle persone da coinvolgere per una proposta di formazione e di borsa lavoro-tirocinio formativo rappresenta un prerequisito indispensabile per questo genere di esperienze. Lo sanno bene alcune cooperative di Legacoopsociali che con il progetto NatiPerSoffriggere, dal 2015 stanno sperimentando con successo a Torino e a Genova un percorso che prevede la valorizzazione delle diverse culture gastronomiche attraverso l’organizzazione di corsi di cucina migrante, l’organizzazione di cene social e la partecipazione a eventi enogastronomici (come Festival Suq di Genova a The Vegetarian Chance a Milano).

Queste attività sono finalizzate all’inserimento lavorativo dei rifugiati in alcuni ristoranti torinesi. Ma per poter organizzare corsi di formazione occorrono fondi specifici, che in questo settore mancano completamente e allora si ricorre al volontariato, al foundraising o alla ricerca di sponsor. Alcuni come la Pizzeria del Rifugiato, ospite della Parrocchia di Don Massimo Biancalani a Pistoia, stanno muovendo ora i primi passi, utilizzando spazi messi a disposizione dal parroco. In questo caso la formazione è affidata alla buona volontà di maestri pizzaioli e panificatori, disposti a insegnare volontariamente la loro arte.

Se questi possono essere lodevoli esempi di accoglienza, per poter professionalizzare queste persone occorrono però seri programmi di formazione-lavoro. Superata la barriera della formazione, per contenere gli investimenti in strutture e locali spesso si comincia con la formula del catering. A Milano ce l’hanno fatta le donne di Mama Food, straniere fuggite da Paesi in guerra, ospiti di un  Centro di accoglienza del comune di Milano nel quartiere Greco. Le loro cucine sono ospiti di uno stabile adibito ad housing sociale, e qui propongono piatti mediorientali, maghrebini, senegalesi e anche italiani. Sempre a Milano, dal 2013, Cuochi a Colori propone cucina a domicilio, catering, team building e corsi di cucina con menù multietnici. A gestire il tutto è la One Worl, società profit con obiettivi sociali.

Roma Capitale ospita invece Makì Sapori dal Mondo, un clan itinerante di cuochi-migranti con base alla Città dell’Utopia, aggregati in puro stile Maquis, una via di mezzo tra una piccola locanda africana e un chiosco ambulante. Catering, e banqueting dunque, ma anche servizi bar, come il Café de la Paix  di Bologna, in pieno centro storico, a due passi da Piazza Maggiore: un luogo tranquillo che serve caffè, colazioni, aperitivi e vende prodotti biologici, equo solidali e a km 0. Proseguendo nel nostro viaggio arriviamo a Napoli, dove nell’autunno scorso ha tirato su la saracinesca il Kikana ristobar, nato come evoluzione della cooperativa di catering Tobilì, premiata da CoopFond - Unicoop Tirreno come miglior start-up campana nel 2016. Dal ristobar al ristorante il passo sembra breve, ma è molto oneroso; eppure c’è chi è riuscito a decollare contando solo sui propri sacrifici e investimenti. E il torinese di Makawi Jamal e del suo ristorante Zenobia, dove insieme alla moglie e ai figli, ha aperto questo ristorantino che serve cucina siro-libanese. E mentre all’orizzonte spuntano nuove esperienze e speranze, c’è chi continua a seminare, perché più si scende a Sud e più questi progetti sono difficili da realizzare. A forza di seminare, la Coop Arcolaio ha fatto spuntare a Siracusa Sapori Cult, un laboratorio di trasformazione di erbe aromatiche e verdure biologiche coltivate da giovani rifugiati africani in terreni di proprietà della Curia. E mentre i loro prodotti entrano nei negozi e nelle cucine di alcuni ristoranti, stanno già pensando ad aprire un catering, ovviamente multietnico.

Tre casi eccellenti dal Nord al Sud Italia, passando per la Capitale.

Orient & Africa Experience

Siamo in Veneto. Siamo all’Orient Experience, aperto a Venezia nel quartiere di Cannaregio nel 2012 da Hamed Mohamad Karim, regista afghano giunto in Italia come profugo, con una grande passione per la cucina. L’idea è semplice: mettere ai fornelli i compagni di viaggio delle strutture d’accoglienza per creare un menu con piatti afghani, pakistani, iraniani e levantini. Il successo è stato immediato, anche per la politica del rapporto qualità-prezzo. Il risultato è che oggi, a pochi anni di distanza, si replica con l’apertura di Orient Experience II (quartiere Santa Margerita).  E siccome non c’è due senza tre, dal 2016 nasce Africa Experience frutto di un concorso realizzato dell’Istituto professionale «Andrea Barbarigo». Stesso concept ma cucina diversa, votata questa volta ai sapori dell’Africa sub sahariana.

Altrove

Siamo nella Capitale, a due passi da Eataly Ostiense, qui ha aperto i battenti il concept bistrot Altrove, che occupa una superficie di 250 metri quadrati, per un totale di 50 coperti, suddivisi su due piani. Il design è stato curato da tre noti architetti romani mentre in cucina opera uno staff multiculturale, guidato da esperti cuochi, panificatori e pasticceri con importanti esperienze alle spalle. A questi, si affianca una brigata formata appositamente dall’onlus Cies, che coinvolge rifugiati, minori non accompagnati e giovani in difficoltà. Il risultato è una proposta gastronomica mediterranea di ottima qualità, attenta alle intolleranze e alle diverse precettistiche religiose, con una rivisitazione delle ricette tradizionali in chiave interculturale. Altrove, inoltre, funziona anche come spazio eventi.

Chiku

A Napoli, nel quartiere di Scampia, troviamo Chikù, con un concept restaurant decisamente multitasking: officina gastronomica e culturale, location per eventi, gastronomia e bistrot, punto di aggregazione. Chikù è gestito dall’impresa sociale La Kumpania e dall’associazione di promozione sociale onlus “Chi Rom e…chi no” e tra interno, terrazze e esterni può ospitare fino a 360 persone.  La proposta culinaria è un poderoso mix di piatti dell’area balcanica (compresi quelli delle comunità Rom, unico caso in Italia), intrecciati con quelli italiani, realizzati con prodotti freschi di stagione prediligendo quelli a km0, biologici e le eccellenze della regione Campania. In un’ottica decisamente social e multiculturale, Chikù  ospita attività di sperimentazione pedagogica, dedicata a bambini, giovani, adulti e famiglie.

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