L’Italia (della ristorazione) s’è desta

Cannavacciuolo, Milone, i fratelli Costardi e gli spagnoli Adrià a Torino. Cracco, Berton e Borghese a Milano. Bowerman e Pipero a Roma. Sono alcuni dei nomi scritti sulla mappa delle aperture più attese del 2017 e spiattellata qua e là in rete. Una sorta di cartina al tornasole della vivacità della ristorazione italiana, e solo italiana.

È notizia di questi giorni che Jamie Oliver, uno dei cuochi-imprenditori più noti nel Regno Unito, abbia deciso di chiudere sei dei suoi 42 ristoranti Jamies Italian, messi in crisi dai maggiori costi e dalle incertezze sorte post-Brexit.  In particolare, a causa della perdita di valore della sterlina rispetto all’euro, sono saliti i prezzi degli ingredienti acquistati in Italia, ma hanno pesato anche i costi di formazione e il calo delle visite.

Mormorii e fatti di cronaca confermati dai numeri. Stando all’ultimo rapporto Fipe, l’Italia è il terzo mercato della ristorazione in Europa dopo Regno Unito e Spagna, con un valore di oltre 76 miliardi di euro (vedi a pag. 32). Tuttavia, nella nota alla stampa si legge che tra il 2007 e il 2015 nel nostro Paese l’impatto della recessione sulla ristorazione è stato contenuto (-344 milioni di euro) e molto diverso da quanto è accaduto in Spagna (-14,3 miliardi di euro) o nel Regno Unito (-7 miliardi).

Tutto a gonfie vele, dunque? Lo abbiamo chiesto ai dieci nuovi chef stellati sotto i trentacinque anni (da pagina 24) per tracciare insieme il profilo della cucina del futuro e, in vista dell’imminente Vinitaly, anche quella che sarà la cantina dei ristoranti di domani. Con qualche sorpresa.

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