La carica dei Piwi: i vitigni ibridi ed “ecologici”, ma ancora molto discussi

Pilzwiderstandfähige, abbreviato in Piwi, in tedesco significa resistente ai funghi. Sono vitigni ibridi, studiati per essere immuni da oidio e peronospora

Pilzwiderstandfähige in tedesco significa resistente ai funghi. Il termine, abbreviato in Piwi, comincia a essere conosciuto anche al grande pubblico, oltre che agli enologi. Qualcuno li chiama vitigni resistenti. Ma in sintesi stiamo parlando di vitigni ibridi, in pratica vitigni ottenuti dall'incrocio di piante di vitis vinifera e altre varietà non appartenenti a quelle normalmente utilizzate in viticoltura (anzi a volte proprio vietate). Si tratta di incroci studiati principalmente allo scopo di dar dar vita a specie praticamente immuni a oidio e peronospora (la vinifera non ha geni capaci di rendere le piante immuni a tali malattie), due malattie molto comuni per la vite che obbligano i viticoltori a numerosi interventi di prevenzione.

La storia

L'ibridazione (una pratica molto comune in agricoltura) si ottiene tramite la fecondazione di una specie con una specie diversa ma affine geneticamente. Può essere indotta dall'uomo o può avvenire in modo naturale. I primi vitigni ibridi vennero studiati e ottenuti (in particolare negli Stati Uniti) circa 200 anni fa. Fu con l'arrivo dell'oidio nel 1845 (in Inghilterra) e della peronospora nel 1878 (in Francia) che lo studio e la ricerca su vitigni ibridati subirono un'accelerazione e una diffusione anche in vari Paesi europei.

I veneti, per esempio, ben conoscono il Clinton (ottenuto per ibridazione tra Vitis labrusca e la Vitis riparia) arrivato dagli Stati Uniti alla fine dell'800 (anche se c'è chi dice nel 1850 e chi nel 1920) e molti conoscono l'uva Isabella o uva fragola (ottenuta per ibridazione - pare spontanea - tra vitis labrusca e una qualche varietà di vitis vinifera). Si tratta di due vitigni molto resistenti sia alle condizioni climatiche che alle malattie e che praticamente non richiedono l'utilizzo di fitofarmaci. Ma sono anche due vitigni da cui non è più consentito produrre vino.

Gli ibridi, in passato, davano infatti vini dal sapore fin troppo pieno (chi ha avuto l'occasione di assaggiare Clinton o Fragolino - quello vero - lo sa bene). E poi, fattore ancora più negativo, sono ricchi di pectina nelle bucce che durante la vinificazione - scusate la semplificazione - si trasforma in metanolo (soprattutto coi metodi molto artigianali utilizzati dai nostri nonni).

Le legislazione europea

C'è poi da aggiungere che la legislazione europea consente di produrre vini Doc solo da uve di vitis vinifera, anche se permette l'impianto di vitigni ibridi per la produzione di vini Igt. Come accade in Italia dove oggi sono diversi gli ibridi (o Piwi) autorizzati per la produzione di vino a Igt.

Ora però le cose stanno cambiando. O, meglio, si stanno evolvendo. Giuseppe Pan, assessore della Regione Veneto, ha detto: «Il futuro della viticoltura sta nella competitività aziendale e nella sostenibilità ambientale. Credo quindi che sia interesse di tutti, e non solo dei viticoltori, coniugare ottime rese con il rispetto dell’ambiente e della salute, abbattendo il più possibile il ricorso a fitofarmaci di origine chimica.

Le sperimentazioni in atto nella diverse regioni, sotto la guida qualificata di ricercatori ed enotecnici, stanno offrendo risultati interessanti in termini di resistenza ai parassiti e alle patologie della vite, nonché di adattamento ai cambiamenti climatici. Ora il prossimo step dovrà essere quello di allineare il sistema delle regole per le DO alle innovazioni economiche e ambientali in atto nel mondo della viticoltura». Riassumendo: sono vitigni che producono bene, non hanno bisogno di troppi interventi fitosanitari e sono perfetti per la viticoltura biologica. E questo è un aspetto non certo secondario.

La mappa dei produttori

Non è un caso che l'istanza sia stata avanzata dalla regione Veneto. E' lì infatti (e in generale nel Nord Est, con poche e rare accezioni altrove) che si trova un'alta concentrazione di cantine che producono, magari a fianco dei vini tradizionali anche i Piwi.

L'Ho'opa, Piwi della cantina Pizzolato di Villorba (Tv), a base di uva (bianca) Johanniter

Tra queste segnaliamo Le CarlinePizzolato (qui una nostra degustazione dello scorso anno), CrodaRossaGentiliGiolLe Rive di Bonato e GiannitessariWine che ha recentemente lanciato il suo Rebellis, la più recente etichetta  dell’azienda. In Trentino troviamo Villa Persani, Casimiro di Bernardino Poli, De Fattore (giovane azienda che produce vini in anfora così come mette una certa attenzione ai vitigni resistenti) e altri ancora. In Alto Adige infine troviamo Plonerhof, St: Quirinus o Elena Walch. Ma molti produttori stanno cominciando a guardare i Piwi con interesse.

Difficilmente, sulle etichette dei vini di queste cantine, troverete l'indicazione di "vini prodotti da vitigni ibridi". Più probabilmente troverete una scritta del tipo "Vino prodotto da vitigni resistenti" o direttamente vini Piwi. Dal punto di vista produttivo non cambia nulla. Ma da quello del marketing è tutta un'altra storia.

Gli studi

All'avanguardia nella ricerca sui Piwi ci sono i Vivai Rauscedo che in questo Quaderno racconta quasi tutto quello che è stato fatto dal 2006, anno di inizio delle sperimentazioni, a oggi. Qui si scopre per esempio che nel 2015 sono stati iscritti al Catalogo Nazionale "nuovi" vitigni che si chiamano Solaris, Fleurta, Soreli, Merlot Kanthus e via dicendo. Non aggiungiamo altro. Chi fosse interessato può trovare tutte le informazioni sul lavoro dei Vivai Rauscedo sfogliando il quaderno stesso.

L'Associazione

Infine, segnaliamo che c'è anche un'associazione Piwi international che, come riportato sul sito: "Promuove lo scambio di informazioni tra istituti di ricerca, allevatori, coltivatori e produttori dei vini PIWI, in modo da consentire la diffusione delle varietá di vite resistenti ai funghi".

La Piwi International organizza anche un concorso. Nel 2020 si è tenuta la decima edizione. Qui la dettagli.

 

Foto tratte dal sito Piwi-International

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