Quanti orrori in questo menu

I più macroscopici sono quelli determinati da traduzioni approssimative in lingue conosciute poco e male. Ma si può sbagliare anche con la carta in italiano: soprattutto a causa di esagerazioni, toni enfatici e uso impreciso di termini e punteggiatura

Turista uguale a cliente importante. E per metterlo a suo agio la traduzione dei piatti è obbligatoria.
Ma le lingue straniere, si sa, sono una brutta bestia. E allora visto che il figlio con l’inglese non va d’accordo e spendere per la traduzione non è il caso, allora si ricorre al fai da te. Tanto alla fine ci si capisce sempre.

Trappole linguistiche

Invece la brutta figura ci aspetta dietro l’angolo. Come la pasticceria palermitana che per tradurre menta non ha fatto ricorso al corretto mint, ma al fantasioso lies, da to lie, mentire e pure con la terza persona
singolare.
L’assonanza un po’ c’è, però una bevanda alle bugie incuriosisce, ma forse non invoglia. E anche quel Tè alla pesca che diventa The to the fishing (letterale, tè che sta pescando) fa rizzare i capelli.

Ancora, fior di latte diventa fior di milk, qui siamo nel maccheronico, mentre in un ristorante romano il supplì di riso diventa laughed fried, soltanto che laughed è il passato del verbo ridere.

La scelta migliore? Meglio essere autentici e semplici
Traduzioni simili lasciano qualche dubbio anche sulla realizzazione della ricetta e poi, come osserva Stefano Bartezzaghi nel suo libro “Come dire”, il problema non è non sapere la lingua ma «non sapere di non sapere una lingua».
Nel suo libro dedicato al galateo della comunicazione, Bartezzaghi spiega che «se non sapete l’inglese è inutile fare come Alberto Sordi: se non sapete lo spagnolo non è che potete parlare italiano aggiungendo una S finale a ogni parola. Si può simulare di essere in possesso di molte qualità, ma non si può far finta di sapere una lingua».

Niente voli lirici

La regola però spesso non viene seguita. E gli esempi, anche in rete non mancano. Bartezzaghi cita quelle tremende cozze alla marinara che nella lista sono diventate mussels to the Duffle-coat (cozza al Montgomery, inteso come cappotto) o la fiorentina s.q. che diventa beef special to iron second quantity ovvero uno speciale manzo secondo quantità dei ferri da stiro.
Si potrebbe andare avanti a lungo, ma chiudiamo con un evergreen che è la “cazzata siciliana”, evoluzione linguistica della celebre cassata.
Bartezzaghi va oltre, perché i menù possono essere scritti in italiano corretto e raggiungere vette da Promessi Sposi. Sobrietà vo cercando è l’invocazione, perché non bisogna abusare di quel “nostro” utilizzato da troppi ristoratori.
Deve essere un aggettivo che caratterizza un piatto, se li comprende tutti non ha senso. E poi quei tremendi puntini di sospensione che alludono a piatti sfiziosi. E poi c’è il vocabolario, questa volta in italiano, che con il passare del tempo si è arricchito di preparazioni in forma di nuvole, soffi, ombre, suggestioni. Da evitare.

2 Commenti

  1. “…lies, da to lie, mentire e pure con la terza persona plurale”.

    Terza persona SINGOLARE. La “s” al simple present si usa per la terza persona SINGOLARE.

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