Al Machettö l’eccellenza del gusto non ha sprechi

Giuseppe Auricchio e il suo Machettö a Pietra Ligure (Sv). Un gioco di esperienze, tecniche e ricerca che ha portato a una cucina che non guarda solo alle tipicità della Riviera. Un laboratorio di ricerca gastronomica a tutto tondo che punta, tra le varie cose, all’utilizzo razionale delle materie prime

«Non avendo un passato ligure, devo cercarlo. Non avendo una nonna che mi raccontasse questo mondo, mi sento come chi legge un libro: chi legge si immagina i personaggi, i luoghi. Ecco, io sono quello che legge il libro». In questa metafora di Giuseppe Auricchio, chef patron di Machettö, c’è l’essenza di uno dei progetti di ristorazione più interessanti del Ponente ligure.

Le origini

Un ristorante nato a Pietra Ligure dall’idea di un “forestiero” - campano di nascita, classe 1988 - che ha trasformato la sua distanza culturale in un potente strumento di indagine. Insieme alla compagna, la maître e sommelier Dominika Bekasiak, ha aperto nel 2020 un locale che è prima di tutto un laboratorio di ricerca sull’identità ligure.

Il nome stesso, Machettö, è un manifesto. «Non è nato per la salsa di acciughe, ma per il suo significato. Parliamo di un derivato del garum romano che, spargendosi, è diventato colatura di alici, machetto, bagna cauda. Il senso è stato proprio questo: quando abbiamo aperto, nessuno di noi era del posto, ma arrivando ci siamo adattati al territorio e vi ci siamo radicati».

La nascita del ristorante

Un radicamento costruito con le proprie mani, letteralmente. Durante la pandemia, con le ditte ferme, sono stati loro a ristrutturare i locali, un ex bar e un magazzino, imparando a posare piastrelle e a stuccare i muri. Il risultato è una sala intima da una ventina di coperti, con pietra viva e soffitti a volta, che d’estate si espande nel caruggio. Un ambiente che riflette la filosofia della cucina: familiare, vera, senza orpelli. «Voglio che il rapporto tra piatto e bocca sia diretto», afferma lo chef. Un’attitudine che si riflette anche nel servizio, gestito da un team affiatato che Auricchio definisce la Machettö Family. L’obiettivo è far sentire l’ospite a proprio agio, parte di un racconto.

Esperienze

Il percorso di Auricchio è un mosaico di esperienze che convergono nel suo stile attuale. Dalle basi, poste nel ristorante dello zio a Pietra Ligure, al rigore appreso da Enrico Crippa sull’uso del vegetale, passando per il gusto più immediato e “di pancia” imparato da Claudio Sadler e le tecniche di fermentazione esplorate a Varsavia.

È stato proprio il passaggio all’Atelier Amaro di Varsavia a fargli vedere la cucina in modo diverso, trovando in Wojciech Modest Amaro un mentore che ha influenzato il suo stile. Questa conoscenza diventa lo strumento per un’idea precisa di cucina: adattamento, non rivisitazione. «Molti piatti di un tempo, come la “aggiadda” con tanto aceto e tanto aglio, erano spigolosi per necessità di conservazione - spiega -, ma oggi non la apprezzeremmo. È bella l’idea, però. Quindi, la riportiamo ad oggi arrotondandone gli spigoli più vivi».

Le tecniche predilette sono quelle che rispettano e intensificano il sapore. «Amo la brace, la uso molto perché rievoca sapori e profumi antichi». A questa si affiancano le fermentazioni, le estrazioni e, più di recente, la frollatura e stagionatura del pesce. «Uso molto il quinto quarto del pesce quando ce l’ho, è la prima cosa che lavoro». Che qui non finisce in carta ma viene proposto come “satellite” per testare la reazione dei clienti. Meno amate, invece, le basse temperature: «Preferisco un approccio più diretto, o il crudo, o il poco cotto». Ne scaturisce una cucina che non teme l’intensità. «Non amo i sapori delicati. Quando mi dicono “delicato”, per me non è un complimento, penso che manchi qualcosa. Equilibrato mi piace, vuol dire che ho messo tutti i tasselli al loro posto». La stessa intransigenza si applica alla materia prima. «Lavoro solo il pescato e cerco sempre di usare il più possibile il pesce povero, meno conosciuto. Se trovo una bella lampuga...».

Il menu

Il menu è un viaggio in questa Liguria studiata e immaginata. Si apre con un benvenuto che è una dichiarazione d’intenti: un cucchiaio di pesto fatto al mortaio e un pezzo di farinata che arriva da “Da Virginia”, forno storico di Pietra. Tra gli antipasti, il Minestrano è un’icona: il denso minestrone ligure, con verdure di stagione e scucuzzun, viene intrecciato con il concetto dell’insalata russa, usando una maionese vegetale a base di estrazione di erbe per legare gli elementi, i legumi diventano miso e lo scucuzzun, tipica pasta per minestra, aggiunge la parte amidacea. Il tutto arricchito da un cucchiaio di pesto a freddo. «Parlando con la mia compagna, notavamo come in Piemonte ci sia l’insalata russa ovunque. E mi è venuto un flash: perché non trasformare il minestrone in un concetto simile?».

Nei primi, la pasta secca del progetto Barilla al Bronzo è protagonista. Nasce così Carloforte: spaghetto mantecato in estratto di pomodoro e crudo di tonno condito con un pesto senza formaggio e limone fermentato, con una grattugiata di cuore di tonno per finire. O Transumanza, dedicato alla cucina bianca dell’entroterra: mezzi rigatoni con pecorino, latticello, pesto di erbe aromatiche e pepe selvaggio.

Tra i secondi, spicca il pescato del giorno cotto sulla brace, servito con una millefoglie di patate, pomodorini confit e una salsa intensa, montata con le pelli e le lische del pesce. Il capitolo dei dessert è altrettanto curato. Tra gli altri, la Sciumetta, antico dolce di carnevale, o la torta Sassello, pensato sulle note amare dell’amaretto.

L’anima della sala è tutta al femminile, con Dominika Bekasiak, maître e sommelier, che si occupa dell’accoglienza e della cantina. La carta conta circa 80 referenze, con un ottimo focus su vini locali e naturali e ciò grazie a Dominika che ha creato una rete virtuosa di piccoli viticoltori del Ponente ligure, valorizzando vitigni autoctoni poco noti, come la lumassina o il moscatello di Taggia.

 

 

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