Bello fare lo chef? L’altra faccia della medaglia

Uno studio realizzato dall’associazione Ambasciatori del gusto insieme all’ordine degli psicologi del Lazio fotografa i problemi fisici e psicologici più diffusi in chi lavora nella ristorazione. Il rimedio? Chiedere aiuto a un esperto

Quali sono i fattori principali che causano disagi psichici agli operatori della ristorazione? A rispondere a questa domanda c’è il primo studio italiano che indaga sulle cause dello stress nelle cucine dei ristoranti. L’iniziativa, da cui è scaturito l’e-book “La Psicologia al servizio della ristorazione” (scaricabile gratuitamente dal sito dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto), è stata promossa dalla stessa associazione in collaborazione con l’Ordine degli Psicologi del Lazio e portata a termine grazie ai fondi messi a disposizione dal programma internazionale 50 Best For Recovery, promosso dal The World’s 50 Best Restaurants. 

Due anni di lavoro

Il report è frutto di un lavoro durato oltre due anni, a partire dal protocollo che le due categorie, quella dei professionisti della ristorazione e quella degli psicologi, hanno firmato congiuntamente nel 2019 per favorire l’attenzione al tema e dare il via a una serie di focus group, webinar, sondaggi e colloqui individuali. 

Un percorso durante il quale ci si è dovuti giocoforza confrontare anche con il nuovo “mostro” che ha colpito, ben più di altri, il settore della ristorazione: la pandemia.

Le risposte al questionario inviato agli associati degli Ambasciatori del Gusto hanno fornito la base per tracciare un identikit dello stato di salute - psicologico e fisico - di chi lavora nella ristorazione di lato livello: nella stragrande maggioranza dei casi appartengono a una fascia d’età compresa fra i 31 e i 65 anni (89%); molti di loro svolgono questo mestiere da più di 20 anni (73%), per lo più come titolari o co-titolari dell’attività (84%). Sono ristoratori il 77% dei rispondenti e ristoratori/cuochi il 57%; di questi il 49% è chef capo di brigata. Il 70% del campione è composto da uomini: oltre l’85% di loro ha una relazione stabile (conviventi/sposati), il 55% ha figli conviventi.

Il quadro delle criticità

«La ricerca - spiega David Pelusi dell’Ordine Psicologi del Lazio - ci ha permesso di documentare un quadro di criticità preesistenti alla pandemia che l’emergenza Covid ha ridefinito in modo del tutto nuovo e, talvolta, inaspettato». Come si legge nella premessa dello studio, “nel 2020, a causa della situazione pandemica, la problematica dello stress è risultata essere ancora più centrale rispetto a prima, dal momento che molte realtà della ristorazione si sono trovate a gestire enormi difficoltà dettate dall’incertezza del futuro e dalle chiusure forzate, che hanno portato diverse imprese a scegliere di non riaprire, alcune in via definitiva”. 

E ancora, “tutte le categorie intervistate, in riferimento al periodo pre pandemia, hanno riportato una percezione diffusa su quanto il lavoro fosse estremamente frenetico, intenso, con orari impegnativi”. 

Stress, orari, turni

Andando nel dettaglio, è noto come il Covid abbia reso più difficile la ricerca di collaboratori nella ristorazione; ma, in realtà, era una preoccupazione segnalata dagli addetti ai lavori già nel periodo precedente alla pandemia. Le criticità legate al turn over del personale erano infatti già presenti nell’80% dei rispondenti. Tra gli altri fattori di preoccupazione e stress indicati emergono l’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata (56%), gli orari di lavoro massacranti (55%) e i carichi di lavoro usuranti (54%). 

A proposito degli orari, durante la presentazione si è aperto il tema della “settimana corta” nei ristoranti, che consente una migliore turnazione del personale. Cristina Bowerman, presidente dell’Associazione italiana Ambasciatori del Gusto, che nella vita è chef e patron di Glass Hostaria, ha sottolineato come allo chef-imprenditore in realtà non sia concesso staccare neanche quando le serrande sono abbassate.

Disagi psico-fisici

L’aumentare dell’incidenza dei disagi psico-fisici, proporzionale all’aumentare degli anni di esperienza lavorativa, è la “prova provata” di quanto lavorare nella ristorazione sia un’attività fisicamente e mentalmente usurante: i soggetti con più di 20 anni di attività, infatti, segnalano una maggiore presenza di sintomi fisici, molti dei quali correlati allo stress e acuiti a causa della pandemia. 

Andando nel dettaglio, il 31% dei soggetti con oltre 20 anni di attività soffre stabilmente di problemi alimentari; sempre nella stessa fascia, il 38% indica un peggioramento del sonno; il 24% denuncia un peggioramento dei problemi muscolo-scheletrici post Covid, mentre per un ulteriore 24% sono rimasti stabili; infine il 35% ritiene stabili i problemi di pressione del sangue.

Malessere psicologico

Indagando l’ambito psichico e mantenendo il focus sui rispondenti con oltre 20 anni di attività, il 25% segnala un peggioramento dell’ansia, con un ulteriore 25% che indica una certa stabilità. 

Quanto all’irritabilità, il 30% della fascia con più di 20 anni di esperienza la valuta stabile mentre il 29% indica un peggioramento. Sempre in quest’ultima fascia, il 28% segnala un incremento dell’isolamento sociale a fronte di un 19% che ritiene sia rimasto stabile (solo il 23% non rileva alcun problema in merito). E la tristezza? Il 29% indica un peggioramento, il 22% ritiene che la situazione sia stabile, un altro 20% non rileva il problema.

Possibili aiuti

A una diffusa condizione di disagio e difficoltà non corrisponde una presa di coscienza della possibilità di mettere mano alla situazione per cambiarla/migliorarla. Ne è una prova la scarsa propensione a rivolgersi a una rete di counsellor da parte degli addetti alla ristorazione. Pochi tra gli intervistati, nonostante le opportunità predisposte dall’associazione Ambasciatori del Gusto, ne hanno fatto ricorso nel periodo pandemico, in particolare durante le chiusure forzate.

Per lo più raccontano di essersi dedicati all’aggiornamento professionale (72%), agli hobby (63%) o al cercare notizie/informazioni (59%). Oltre il 78% ha riferito di essersi confrontato con i colleghi e oltre l’80% ha pensato ad alternative possibili per mantenere in piedi l’impresa. 

Oltre il 98% dei rispondenti ha confermato di voler continuare l’attività di ristorazione, il 52% si è detto disposto a modificare il tipo di offerta e infine il 63% di voler intervenire sull’organizzazione. 

«La propria attività - è la conclusione -, nonostante tutte le difficoltà, si mantiene al centro dell’attenzione anche in relazione alle scelte future». 

Le esperienze di

1Enrico Bartolini

Da sempre attento agli staff dei propri ristoranti (è grazie a loro che ha potuto ottenere ben nove stelle Michelin con i ristoranti che gestisce), dopo l’inizio della pandemia lo chef tristellato del Mudec di Milano ha riflettuto sulla necessità di rivedere, anche in termini emotivi, la propria routine lavorativa. Racconta, quindi, di aver coinvolto tutta la sua brigata in un ciclo di tre incontri di gruppo con un terapeuta: «Siamo ricorsi a un consulente che fosse in grado di fotografarci dall’esterno e restituirci un parere professionale che avrebbe potuto essere d’aiuto per il nostro futuro, personale e lavorativo». Un’iniziativa che è stata ben accolta, racconta Bartolini, dallo staff, che ha visto in questa proposta «un importante segnale di conforto».

 

2Alessandro Gilmozzi

Dopo il lockdown, lo chef patron del Ristorante El Molin di Cavalese (Tn) ha provato a portare un coach in brigata, per stimolare il suo staff a un confronto. Tuttavia, racconta, si è dovuto arrendere alla scarsa propensione dei suoi collaboratori ad aprirsi in un contesto del genere. Così, è stato lo stesso Gilmozzi ad approfittare della professionalità del terapeuta per “una chiacchierata consapevole”. Utile? «Ho riscoperto - ammette lo chef - dei lati importanti del mio carattere, sui quali ho iniziato a lavorare e sui quali insisterò anche per aiutare la mia azienda». Non solo: «Il lavoro con il coach è servito per capire come rapportarmi in futuro con le nuove generazioni. Alla fine, ho capito che siamo soprattutto noi a dover cambiare, ancora e ancora».

 

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