Post Covid: alla ricerca della normalità perduta

Two waiters serving lunch and brining food to their gusts in a tavern. Focus is on happy waitress.
Il Covid ha lasciato il segno. E ora ci si sono messi anche gli aumenti di materie prime ed energia. Tuttavia molti pensano che la normalità del pre-pandemia potrebbe tornare già quest’anno

Il dramma del Covid visto dalle imprese della ristorazione. È questo il tema generale del Rapporto 2021 della Fipe, che traccia un quadro poco positivo dopo un biennio di pandemia. Racconta della “tempesta perfetta” che ha colpito questo settore, ma lancia un segnale di speranza per i prossimi anni. Tanto da pensare che, nei prossimi due anni, si possa tornare ai livelli pre-pandemia: per il 60% dei ristoratori l’obiettivo sarà centrato nel biennio 2023-2024, mentre per un buon 40% è un obiettivo raggiungibile già nel corso di quest’anno. 

Le chiusure

Scorrendo il report, il dato che salta per primo all’occhio è la conta dei caduti: sono 45mila in un biennio, di cui 23mila hanno cessato l’attività nel solo 2021. Anche quel +8.942 di imprese che hanno aperto in quei dodici mesi non è del tutto un dato positivo: «Prima del Covid - dice Luciano Sbraga, vicedirettore Fipe e direttore del Centro Studi della federazione - ogni anno erano circa un quindicimila le nuove imprese. Questo è quindi un dato che segna un dimezzamento delle nuove aperture». 

Anche chi è sopravvissuto non se la cava così bene: il 71% registra una contrazione del proprio fatturato rispetto al 2020. Un terzo di queste ha lamentato una diminuzione che supera il 20%. Per appena il 16% delle imprese il 2021 è stato l’anno di una parziale ripartenza, con un fatturato in crescita, anche se per la maggioranza di esse, il miglioramento dei conti si ferma sotto il 10%. In generale, a gravare sulle imprese della ristorazione, l’aumento dei costi di gestione (62,9%), seguito dal perdurare delle restrizioni introdotte dal Governo per contrastare la pandemia (52%), quindi da una domanda insufficiente sia dal punto di vista della clientela potenziale che della capacità di spesa.

L'aumento dei prezzi

Con il Covid in rallentamento, o almeno si spera, nuove nuvole si affacciano ora all’orizzonte per i pubblici esercizi. L’aumento dei prezzi delle forniture, specialmente di luce e gas, traina un’incertezza generale sul conto economico. A questo si aggiungono gli aumenti del costo delle materie prime per la ristorazione e, in alcuni casi, l’irreperibilità di alcuni prodotti. 

Oltre l’87% dei pubblici esercizi dichiara di aver subito aumenti della bolletta energetica: uno su tre lamenta rincari tra il 25% e il 50% e quasi il 20% denuncia rincari superiori al 50%. Le cose non migliorano se dall’energia si passa ai prodotti alimentari. Oltre l’85% delle imprese registra aumenti dei listini da parte dei propri fornitori che nella maggioranza dei casi oscillano tra il 10% e il 25%. Non mancano tuttavia situazione estreme con aumenti al di sopra del 25%.

Anche per l’anno in corso non si vede la luce da questo punto di vista: 3 imprese su 4 si aspettano per l’anno in corso un ulteriore aumento dei costi della bolletta energetica e dei prezzi dei prodotti alimentari.

Listini fermi

All’aumento generale dell’inflazione non corrisponde tuttavia un aumento listini, almeno per adesso: gli aumenti del comparto sono nell’ordine del 3,2%, a fronte di un valore generale dell’inflazione pari al 5,7%. Si avverte però una propensione verso l’aumento dei listini nei prossimi mesi: le contromisure sono individuate proprio in un rialzo dei prezzi di vendita (33,6%) e nella scelta di fornitori più competitivi (28%).

Fra le richieste di Fipe per uscire dalla “tempesta perfetta”, c’è la moratoria dei mutui, resa ancor più cruciale dall’aumento dei prezzi delle materie prime. Tra il 75% delle imprese che nel 2021 ha fatto ricorso a uno strumento per le proprie esigenze di liquidità, oltre la metà ha utilizzato fonti esterne (banche, finanziarie…), poco più del 23% si è limitato all’autofinanziamento e un altro 21% ha modificato le condizioni con i propri fornitori.

Le imprese hanno continuato a investire, ma gli interventi sono stati di piccolo cabotaggio, riguardando soprattutto strumenti e attrezzature per la compliance con i regolamenti di sicurezza anti-Covid e il layout del locale. 

Addetti: la situazione

Sono quasi duecentomila gli addetti che si sono persi in questo biennio. Il picco era stato riscontrato nel 2020, quando si erano perse oltre 243mila unità, solo in parte recuperate nel corso del 2021. Il risultato è che in questo ultimo anno il numero dei lavoratori dipendenti è ancora inferiore di 194mila unità rispetto al 2019.

Il 28% delle imprese denuncia anche una grave dispersione delle competenze e, in particolare, il 21,5% di queste afferma di aver perso collaboratori d’esperienza, formati nel tempo. Guardando il bicchiere mezzo pieno, va segnalato un 65% di aziende che, pur in una congiuntura così difficile, è riuscito a mantenere i livelli occupazionali del periodo pre-pandemia.

La necessità di recuperare il capitale umano perduto nell’anno del lockdown ha portato il 32,6% dei pubblici esercizi intervistati a ricercare personale nel corso del 2021. Due imprese su tre hanno incontrato difficoltà nell’individuare le figure professionali necessarie. Le principali motivazioni alla base di questa difficoltà di reclutamento sono le competenze inadeguate (40,3%), la penuria di candidati (33,5%) e le misure di sostegno al reddito che disincentivano la ricerca di lavoro (32,4%), da interpretare anche alla luce di considerazioni sulla scarsa attrattività dei mestieri della ristorazione.

Rapporti tra imprese e dipendenti

Va detto, afferma Sbraga, che il 2021 è stato un anno fortemente influenzato dalle restrizioni, dall’altalena di chiusure/aperture e dalle complicazioni legate all’obbligo del green pass, che è entrato prepotentemente nella vita lavorativa dei pubblici esercizi dal 6 agosto 2021, in piena stagione estiva.

Il Covid ha impattato anche sui rapporti tra impresa e dipendenti: lo afferma il 33,9% delle imprese intervistate che ha registrato assenze per malattia (48%), chiusure per cluster di contagi (38%) e difficoltà per il rifiuto dei dipendenti a vaccinarsi (13,7%). Per chi si è trovato ad affrontare quest’ultima situazione, si segnalano assenze per via della mancanza di green pass (47,2%), esternazioni “no vax” di fronte ai clienti (29,8%) e persino dimissioni per evitare il vaccino. Le contromisure adottate dalla dalle imprese si sono tradotte in sospensione dal lavoro (33,4%) o mancato rinnovo dei contratti a termine (27,2%).

Per oltre il 72% delle imprese il green pass ha provocato disagi anche nei rapporti con la clientela: in prevalenza si è trattato di clienti infastiditi dal controllo (33,9%), ma non manca chi attribuisce a questo provvedimento responsabilità dirette nel calo dei coperti (28,1%). 

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