Verde e sostenibile è il cuoco del futuro

Da sinistra, Matteo Compagnucci, Carla e Sara Scarsella (foto Andrea Di Lorenzo)
I giovani chef italiani raccontano la cucina che verrà. E, in un bel confronto tenutosi a Identità Milano, tracciano il futuro prossimo venturo svelando tecniche, ingredienti e tendenze

Sono giramondo, con tante esperienze all'estero, ma anche voglia di tornare a casa. Sono attenti alla sostenibilità e ai vegetali. E amano fare squadra. È questo il ritratto degli chef del futuro emerso a Identità Milano, il congresso di alta cucina che si è svolto a fine gennaio sul tema Il futuro è loro: sei interventi dedicati ai giovani della ristorazione e alla loro visione della cucina che verrà.

Generazione Erasmus

Se quella dei Millennials è la “generazione Erasmus”, gli chef oggi trentenni o poco più non fanno eccezione. Natalino Ambra, classe 1989, ha lavorato a Dubai e Shanghai prima di approdare a Singapore all'Osteria Bbr by Alain Ducasse al Raffles Hotel. «In Asia ci sono tanti sapori che devo ancora sperimentare - racconta -. Ma ci sono connessioni con la nostra cucina europea, italiana, francese: può essere un buon matrimonio». Nel suo menu, la cucina marinara italiana, dalla Liguria alla Sicilia, e anche le pizze gourmet. 

Al sesto piano di un altro hotel, questa volta a Roma, Andrea Antonini guida l'Imàgo dell'Hassler navigando tra la formazione romana e quella spagnola, da El Celler de Can Roca a Quique Dacosta. Nei suoi piatti ci sono passato e futuro, emozione e tecnica. Tante influenze che arrivano dall'estero, ma anche la scelta precisa di utilizzare solo ingredienti italiani e di stagione. «Serve la salsa teriyaki? Si può usare saba (mosto cotto) con succo di limone».

Gavetta da globe-trotter

Il passaporto di Sara Scarsella, 30 anni, e Matteo Compagnucci, 29 anni, racconta di una gavetta da globe-trotter, dal Noma di Copenhagen a Londra, fino all'Australia. «Ma il cambiamento più grande è stato tornare, decidere di aprire Sintesi e mettere radici», racconta Scarsella, che ad Ariccia (Roma) ha portato una stella Michelin nel giro di due anni. 

«Volevamo restituire qualcosa alla provincia da cui veniamo. Quando siamo tornati abbiamo iniziato a vedere il territorio in modo differente. Sono cresciuta in campagna e non mi ero mai accorta di avere un giardino pieno di erbe spontanee. Viaggiare ti apre la mente e ti fa capire come usare cose che si trovano in natura».

Vegetali al centro

Nelle loro ricette gli scarti vengono riutilizzati, i cibi dimenticati trovano nuova vita, i vegetali hanno un posto d'onore. «Non siamo un ristorante vegetariano ma ci piace usare i vegetali», spiegano gli chef di Sintesi. «Il territorio dei Castelli Romani ha una forte identità gastronomica legata alla porchetta e la tradizione si basa sulle proteine animali, ma volevamo far conoscere la parte vegetale. Mentre per il pesce preferiamo quello di lago, che arriva dai vicini laghi di Albano e di Nemi».

Un dolce a base di patata

Sulla Sila, a 1300 metri, Antonio Biafora nel suo ristorante stellato Hyle a San Giovanni in Fiore (Cosenza) studia un dolce a base di patata della zona in cui tutto (bucce comprese) viene utilizzato, mentre a Catanzaro Luca Abbruzzino, al Ristorante Abbruzzino (una stella Michelin), sperimenta una millefoglie dolce in cui la sfoglia è fatta con margarina da scarti del pesce e la crema con pasta di seppia.

Intanto John Regefalk, nato in Svezia e oggi head of culinary innovation del Basque Culinary Center di San Sebastián, in Spagna, lavora a un progetto sul grande branzino atlantico in collaborazione con l'azienda ittica Acquanaria. Facendo ricerca, tra l'altro, su come usare i pesci nella loro interezza evitando sprechi. «Con i ritagli conservati in freezer abbiamo fatto di tutto: würstel, mortadella, 'nduja...», racconta. La bile viene infusa in alcool puro per ottenere un amaro, con le branchie si fa un gin. «E se avanza ancora qualcosa facciamo un garum», cioè l'antenato della colatura di alici.

Tra pandemia e guerra in Ucraina

Ma sono tanti i temi contemporanei con cui gli chef del futuro sanno di dover fare i conti. Dall'impatto della pandemia e della guerra in Ucraina al costo di materie prime ed energia, fino alla sostenibilità del lavoro. 

Il ristorante Pellico 3, all'hotel Park Hyatt di Milano, è aperto cinque giorni la settimana, solo la sera, proprio per lasciare spazio al riposo e alla vita privata. «Ho 32 anni, il pasticciere 26. In cucina sono tutti molto giovani, io sono il più vecchio», racconta lo chef Guido Paternollo, ex ingegnere. «Credo che sia importante avere il tempo di pensare prima di cucinare, se no è difficile riuscire a migliorarsi». 

Lavoro di squadra

Il lavoro di squadra conta per tutti. Sia quello interno alla brigata, sia quello con i colleghi. I giovani chef sembrano convinti che sia nel rapporto con gli altri la chiave del successo, più che nell'assolo solitario. 

Dal palco si citano, si salutano, si portano a esempio. Lo dice chiaro Caterina Ceraudo, alla guida del Dattilo di Strongoli in provincia di Crotone (una stella Michelin). «Una rondine non fa primavera, ma tante rondini, magari uno stormo, sì», commenta raccontando la rinascita della Calabria insieme ad Antonio Biafora e Luca Abbruzzino.

1Guido Paternollo 

Pellico 3 (Park Hyatt) - Milano

«Tanti pensano che la cucina sia creatività. In realtà per il 90-95% è rigore, perseveranza e precisione. Poi c'è anche la creatività». A Guido Paternollo (32 anni) queste caratteristiche non mancano. È ingegnere, ma a 23 anni ha mandato una mail a tutti i ristoranti stellati di Milano chiedendo un'opportunità. Gli ha risposto Enrico Bartolini, che per i nuovi talenti ha un certo fiuto, e così Paternollo è entrato al Mudec (tre stelle Michelin). Oggi è a capo di Pellico 3, ristorante del Park Hyatt a Milano che ha raccolto il testimone del bistellato Vun di Andrea Aprea. «La nostra storia è stata una rivoluzione, con il passaggio da Aprea a noi che rappresentiamo i giovani dell'alta cucina», spiega. «Grandi chef hanno fatto la storia negli ultimi 30 anni, ma post pandemia vengono dati più spazio e possibilità agli chef giovani». Che portano ai fornelli una visione che deve fare i conti con un mondo sempre più complesso. «La ristorazione oggi guarda molto anche a quello che c'è fuori: sprechi, energia, benessere dei ragazzi in cucina perché è un lavoro faticoso», racconta. Quindi per lo chef le cucine andrebbero rifatte tenendone conto e «non pensando solo in ottica funzionale». 

2Sara Scarsella

Sintesi - Ariccia (Roma)

Tra le sfide che molti giovani ristoratori hanno dovuto affrontare c'è anche la pandemia. Dopo aver girato il mondo Sara Scarsella (31 anni) ha deciso di tornare nei suoi luoghi, ai Castelli Romani, e di creare qualcosa di suo insieme al compagno Matteo Compagnucci e alla sorella Carla (che si occupa della sala). Sintesi ha aperto ad Ariccia quattro giorni prima che il Covid-19 si abbattesse come una tempesta sull'Italia. «Ci siamo attivati subito con il delivery», ricorda la chef. «Era importante aprire anche solo per fare qualche consegna, fosse pure per i parenti». Una mossa che li fa conoscere e che, quando la situazione migliora, aiuta a creare una clientela affezionata. La stessa che è passata a trovarli o li ha chiamati per complimentarsi quando, lo scorso anno, è arrivata la prima stella Michelin. È stata una bomba emotiva. Tanti del posto che non ci conoscevano ci hanno scoperti. E i commercianti ci hanno ringraziato, perché arriva gente e questo fa bene anche alle strutture ricettive», dice Scarsella. Il suo mantra? «Portare avanti la tua identità ma capire anche quali sono i tuoi limiti e dove puoi migliorare con il feedback dei clienti».

 

3Andrea Antonini

Imàgo, Hotel Hassler - Roma

Sperimentazione e tradizione. La cucina di Andrea Antonini (31 anni) non può che essere sintetizzata così. Vuoi perché si è formato con la cucina tecno-emozionale di Quique Dacosta in Spagna. Vuoi perché è sbarcato giovanissimo nel mondo dell'hotellerie, che definisce molto tradizionale «ma che ti dà delle idee». Vuoi perché è romano e «quando a Roma fai qualcosa di romano e lo fai male ti sei linciato da solo», spiega raccontando la sua versione di alici e puntarelle proposta allo stellato Imàgo, al sesto piano dell'hotel Hassler. «Sono italiano e orgoglioso di esserlo», racconta. Così nel menu tanti piatti giocano con la Francia o il Giappone, ma lo fanno con ingredienti di casa: il nighiri al posto del riso ha una sorta di meringa ottenuta con un brodo di scarti del tonno, mentre il club sandwich usa la tracina tipicamente laziale. «Ogni sei mesi cambiamo menu, per me dopo venti giorni i piatti sono già vecchi», spiega. Così va continuamente alla ricerca di nuove preparazioni, in cui ci sono tecnologia e tanto cuore. E un occhio al food cost: «Ci sto attento, in un hotel come questo appena esco dal budget mi chiamano».

 

4Caterina Ceraudo

Dattilo - Strongoli (Kr)

«Una rondine non fa primavera, ma tante rondini sì». Caterina Ceraudo (36 anni), alla guida del ristorante di famiglia (lo stellato Dattilo di Strongoli), quando parla della Calabria si scalda. Sul palco di «Identità Milano» sale insieme a due colleghi, Luca Abbruzzino del Ristorante Abbruzzino di Catanzaro e Antonio Biafora di Hyle a San Giovanni in Fiore (Cosenza). E sottolinea più volte l'importanza di fare squadra tra giovani chef, soprattutto in un territorio che ancora ha molte problematiche. «Abbiamo capito che insieme potevamo fare molto di più. Siamo un fenomeno di rinascita e rivalsa», spiega Ceraudo. «Crediamo nel territorio. E ognuno di noi racconta una Calabria diversa, senza stereotipi». La regione è cambiata molto negli ultimi anni, dice la chef: «C'è voglia di fare le cose, di fare sistema e di farle bene». Lei dal canto suo lavora su sapori e ingredienti del territorio rendendoli innovativi, come nel caso degli spaghetti declinati con le arance dell'agrumeto di Casa Ceraudo, il vermouth e le cozze. E che non è un primo piatto, ma una proposta che chiude il pasto, prima del dolce.

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