Alimentazione, la chiave per la salute (e per una lunga vita)

Sostenibilità, naturalità, benessere. Termini usati e abusati ai quali è nene dare un preciso valore e significato

Sostenibilità è oggi una parola in bocca a tantissimi soggetti e realtà produttive, se non a tutti. A volte sembra che sia diventata una di quelle parole che vogliono dire tutto senza dire nulla, un po’ come è accaduto ai termini “naturale”, tanto abusato, e “benessere”.
Il mondo della ristorazione per le collettività non fa eccezione. Si parla di cibo sostenibile per indicare cibo a chilometro zero, cibo non sprecato e da non sprecare, cibo da recuperare non per rivenderlo ma per donarlo a chi ne ha bisogno. Sostenibilità è, ancora, differenziare la raccolta dei rifiuti e, quando possibile, dar loro una seconda vita, è non inquinare, è amare il pianeta.

La responsabilità sociale
Ma qual è alla fine il vero significato della parola sostenibilità? La definizione più corretta è quella che richiama il concetto di salvaguardia dell’ambiente e delle risorse per le generazioni future. Un modo di lavorare, quindi, di produrre e creare ricchezza che non crei danni: cioè, che non inquini e che preservi il pianeta da conseguenze che mettono in pericolo il benessere delle generazioni future.
Secondo l’enciclopedia Treccani c’è un’evoluzione del concetto di sostenibilità che va oltre gli aspetti preminentemente ecologici. Si tratta di una sostenibilità più “globale” che tiene conto, oltre che della dimensione ambientale, anche di quella economica e di quella sociale al fine di promuovere un benessere costante e preferibilmente crescente e la prospettiva di lasciare alle generazioni future una qualità della vita non inferiore a quella attuale.
C’è poi un significato di sostenibilità applicato al mondo delle aziende, che vuol dire formazione e crescita delle risorse umane, lotta alla fame e alla malnutrizione, uguaglianza nello sviluppo sociale ed economico tra i sessi.
Infine, parlando del mondo della ristorazione, non si può non citare la responsabilità sociale delle aziende che si occupano della gestione di mense, refettori, ristoranti aziendali - insomma di tutte le realtà destinate a dare da mangiare a grandi numeri di persone per periodi che durano anni - nei confronti della salute dei propri clienti.

Salviamo il dna
Infatti, a che cosa servirebbe trasmettere alle generazioni future un pianeta pulito e fruibile, una società più equa e sviluppata se poi dovessimo tramandare ai discendenti un dna maggiormente propenso alle cosiddette “malattie del benessere”? Il rischio è reale, perché la ricerca scientifica più recente mette in evidenza come la nostra salute non dipenda tanto o solo dal dna ereditato dai nostri genitori, quanto da alimentazione e stile di vita.
La salute non è, quindi, questione di fortuna, del famoso “nascere con la camicia”. Quello che mangiamo influisce efficacemente nel modificare il dna con cui siamo nati, in meglio o in peggio. E per assicurare alle generazioni future un dna migliore di quello posseduto alla nascita è fondamentale rendere disponibili cibi “sicuri” non solo sotto il profilo alimentare, ma anche sotto quello nutrizionale.
In questa direzione la ristorazione “grandi numeri” ha fatto pochi passi e spesso anche passi falsi.
Nelle mense troviamo frequentemente messaggi di gusto e salute, manifesti sui cibi che fanno bene, sull’opportunità di moderare il consumo di sale, sull’importanza dell’attività fisica. Però non sempre l’offerta che si trova nei banchi dei free flow va in questa direzione. Spesso si vedono insalatone che promettono salute e invece sono più ricche di sale, grassi e calorie di una classica pasta alla carbonara, a causa dell’abbondanza di condimenti, formaggi, olive e crostini di indubbia qualità.
La principale causa di tumori e infarti è il grasso corporeo, non il consumo di alimenti animali. Un’insalatona ipercalorica è allora un piatto salutare in quanto costituito “anche” da verdure oppure può diventare un’autostrada verso le malattie cardiovascolari?
Altro esempio. Sta crescendo l’offerta di cibi vegetariani e vegani, che spesso sono ricchi di grassi più dannosi del burro, come l’olio di palma e di cocco, oppure degli ancora più temibili grassi idrogenati (di cui sono ricchissime le paste sfoglie con cui si preparano le torte rustiche ad esempio). E poi avete notato che i “formaggi” vegani sono più ricchi di grassi saturi di quelli animali?

Conoscere per cucinare
Per molti utenti della mensa pranzare in modo sano vuol dire mangiare tutti i giorni una fettina di carne ai ferri, ignorando le linee guida della World Cancer Research Fund che raccomanda un consumo settimanale di carne rossa inferiore ai 350 grammi.
E che dire delle patate che popolano quotidianamente le nostre mense? Sono tredici anni che l’autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) lancia allarmi sull’acrilammide, potente cancerogeno, genotossico e neurotossico, che si produce sulle patate ben 100 volte più che sui cereali. Pare che il suo potere cancerogeno sia 1.000 volte più preoccupante del benzopirene, celebre fumo che si produce durante la cottura alla griglia. Quante volte vediamo patate marroncine, belle intrise di acrilammide, nei ristoranti aziendali o nelle mense scolastiche? Quando lo si fa notare ci si sente rispondere che «se non sono scure nessuno le vuole».
Allora parliamo di sostenibilità vera o di moda, di tendenza? La nostra ristorazione collettiva vende concetti di sostenibilità oppure propone vera sostenibilità? Sono stata volutamente provocatoria con l’intento di far riflettere chi ha la responsabilità della salute di tante persone perché la strada da percorrere va oltre la sola scelta di materie prime di qualità e deve prevedere una seria formazione dei cuochi che lavorano nella ristorazione collettiva sulla nutrizione applicata alla cucina. Qualche azienda potrebbe essere di esempio per guidare una cordata del cambiamento che nutra al meglio una parte fondamentale del nostro pianeta: tutti quei milioni di persone che ogni giorno consumano il pranzo fuori casa, in particolare sul luogo di lavoro.

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