Una mostra al Mart di Rovereto dedicata al food design è l’occasione per approfondire l’argomento e sgombrare il campo da equivoci. Lo facciamo con Paolo Barichella, autore del primo manifesto in tema
Food design, un termine usato e abusato, che a volte ha giustificato le più stravaganti forme del cibo.
Si tratta invece di una disciplina di studio ben precisa, che si occupa di elaborare soluzioni efficaci per la fruizione del cibo, funzionali al tipo di ambiente di consumo e alle esigenze dell'utente.
Così, nel momento stesso in cui mangiamo un cono gelato o spezziamo una tavoletta di cioccolato abbiamo consumato un alimento
la cui forma è stata studiata per rendere più comodo il suo utilizzo: un cono gelato ha quella forma non per ragioni estetiche, ma perché è facile da impugnare andando a passeggio; e una tavoletta di cioccolato è facilmente porzionabile perché le scanalature ne facilitano il taglio.
I concetti chiave, secondo l'esperto
A darci lo spunto per approfondire il concetto di food design è un'esposizione al Mart di Rovereto, dove sono stati messi in mostra i lavori di noti designer e architetti, gli storici brevetti di alcuni prodotti industriali (ad es. i conchiglioni di pasta o il gelato a forma di banana) accanto ai piatti più significativi di famosi chef, che rispondono ai criteri della disciplina.
Per fare chiarezza sul tema e avere un parere competente sull'interpretazione di alcuni lavori esposti al Mart abbiamo invervistato Paolo Barichella, professionista che da oltre dieci anni si occupa di food design, oltre che essere il fondatore del Food Design Studio, “laboratorio di architettura alimentare” (fooddesign.it).
Spiega Barichella: «In sostanza lo studio del food design fa riferimento a parole come ergonomia (scienza che si occupa dello studio dell'interazione tra individui e tecnologie), antropometria (studio delle proporzioni, dimensioni e tutti i caratteri “misurabili” del corpo umano). Ancora: accessibilità, ovvero l'essere fruibile con facilità da una qualsiasi tipologia di utilizzatore e infine usabilità, traduzione del termine “affordance”, ovvero la capacità di un prodotto di comunicare al volo la sua modalità d'uso».
Termini che tradotti in pratica dovrebbero diventare linee guida anche nell'ideazione e presentazione di una ricetta.
«Oggi - prosegue Barichella - i ristoranti e il consumo del cibo stanno cambiando fisionomia (seduti, in piedi, all'aperto, con porzioni tradizionali o in versione bocconcino...) e i professionisti dovrebbero fare delle riflessioni sul cibo e i suoi contenitori. Uno degli errori più frequenti è scegliere contenitori studiati per contesti differenti. Un esempio è quello dell'happy hour, in cui spesso si utilizzano gli stessi piatti della tavola, ma che invece sono troppo pesanti, costringono mano e avambraccio a sforzi inutili e in sostanza non sono adatti a consumi “standing”».
Attenti alle proporzioni
E al tavolo? Secondo il designer si nota la presenza di piatti enormi, sproporzionati rispetto ai tavoli, spesso di dimensioni minuscole. Lo studio del food design potrebbe aiutare il ristoratore, che a volte dà vita al progetto di una ricetta, ma non si mette nei panni di chi la deve consumare e può trovarsi in difficoltà. Quando un cliente guarda perplesso un meraviglioso piatto, senza sapere da che parte cominciare ad assaggiarlo, significa che nella disposizione del cibo c'è qualcosa che ne ostacola il consumo. Pensiamoci su.