«Non amo le mode. Non seguo i trend. Non riesco a pensare di fare qualcosa che so già che tra sei mesi sarà superato. Amo la semplicità, ma odio la banalità. Concepisco i miei piatti partendo dalla materia prima e dal rispetto verso chi ha coltivato la terra o ha allevato al meglio un animale così da offrire a me e ai miei colleghi cuochi un taglio di carne perfetto». Ezio Gritti ammette di non aver mai avuto un vero maestro. È autodidatta, ha imparato sui libri e tra i fornelli. Ha anche imparato nei campi, negli allevamenti e in giro per il mondo. E la curiosità e l’amore che nutre per gli ingredienti si nota e tanto, mentre racconta il suo modo di lavorare o il percorso mentale che lo porta a sviluppare una nuova ricetta.
«Eseguire un piatto per me non vuol dire cuocere, vuol dire cucinare. Cucinare è un atto cerebrale. Una successione di pensieri che si traduce poi nell’esecuzione di un piatto. Le mie ricette nascono così. Assemblo materie prime diverse sapendo già cosa voglio ottenere e cosa otterrò. E la conoscenza delle materie prime è quello che tutti i giorni cerco di insegnare ai miei ragazzi in cucina. Se insegnassi loro cento ricette loro conoscerebbero quelle cento ricette. Se invece insegno loro a riconoscere gli ingredienti do loro modo di usare quegli ingredienti in una infinita gamma di combinazioni».
Come definire la cucina di Ezio Gritti? Un singolo aggettivo non basta. Guarda alla tradizione, all’innovazione, a cotture antiche (compresa la cottura in pentole di legno, un regalo che gli fece Gino Veronelli sfidandolo a trovare materie prime e ricette adatte a quei particolari contenitori) e alle moderne tecnologie. A tagli particolari di carne, al quinto quarto, e poi al piccione (celebre una sua ricetta del 2000 che vede il volatile proposto con liquirizia e menta) e a pesci come la triglia che in menu appare in una ricetta dal semplice, ma significativo titolo Sua maestà, la triglia di scoglio. Il tutto senza temere contaminazioni da parte di ingredienti parecchio particolari: come lo Chanel N° 5 usato per aromatizzare un fumo usato poi in un parfait o il Moscato di Scanzo in unione ai casoncelli bergamaschi.
«L’innovazione è riproporre bene la tradizione - dice Gritti -. Il ché non vuol dire che la tradizione prima fosse fatta male. Era fatta bene per gli anni che erano. Le faccio un esempio. Il piatto tradizionale di Bergamo sono i casoncelli. Ai tempi venivano proposti inondati di burro fuso. E allora erano perfetti così, ma oggi potremmo pensare di riproporli in quel modo? Quindi li abbandoniamo perché altrimenti non sarebbero più veramente tradizionali o li ripensiamo attualizzandoli al nostro tempo? Ecco, io propendo per questa ultima soluzione».
Quello di Gritti è, in definitiva, un locale coerente a se stesso. Linearità e pulizia si ritrovano nei piatti che escono dalla cucina e negli ambienti che accolgono i clienti. Materiali chiari e arredi che mettono e proprio agio. Anche la posateria e il vasellame sembrano (e probabilmente sono) pensati per integrarsi con il colore delle ricette e con quello degli arredi. Insomma, nulla è lasciato al caso pur di dare al cliente quel benessere che Gritti desidera.