Dopo aver spolpato, in senso figurato ma pure letterale, tutte le razze bovine da carne esistenti sulla terra, dalla Fassona piemontese alla Chianina toscana, dalla marchigiana alla romagnola passando per diverse specialità d’Oltralpe, molti publican e gestori di birrerie si sono accorti che non di solo hamburger vive l’appassionato italiano di birra. Il che ha fatto tirare un sospiro di sollievo agli habituè che, per quanto affascinati dalle mille declinazioni del burger gourmet (incluse varianti al foie gras o al macinato di strolghino) hanno salutato con un certo giubilo l’inserimento di piatti di cucina vera e propria da accompagnare alle amate pinte. Il fatto è che, al di là del boom delle birre artigianali italiane e non, il consumatore peninsulare non si accosta al bicchiere di birra con lo stesso “stile” del coetaneo britannico, ceco o tedesco. Nelle taverne di Praga la sola idea di interrompere la deglutizione con la masticazione è causa di sguardi divertiti o almeno perplessi da parte dei locali. Nella City di Londra è prassi consolidata, alla fin della giornata lavorativa, che i vari businessmen, uomini e donne, si precipitino nel più vicino pub per scolarsi una media di quattro o cinque pinte con l’unica compagnia dei colleghi e di un tristanzuolo sacchetto di patatine. Dalle nostre parti è pratica a dir poco impensabile, ergo il “mettere qualcosa sotto i denti” è sempre stato un caposaldo dell’offerta birraria di casa nostra. Sia che fosse un attraente o inquietante buffet libero sia, appunto, una sequenza di burger più o meno elaborati o di loro parenti con maggiore anzianità di servizio come panini, piadine, club sandwich e via dicendo.
Ma con l’innalzamento dell’età media del consumatore tipo e la sua relativa capacità di spesa, nonché del diverso modo di concepire una serata al pub (magari con famiglia al seguito) ecco che la cucina è diventata un pilastro del fatturato annuale. E alla tendenza si sono arresi anche i publican vecchio stile più irriducibili. In una chiacchierata recente fatta con il titolare del leggendario Rose & Crown di Rimini, pub aperto nel lontano 1964, il ruolo dei fornelli è stato condensato in un lapidario:«Fosse per me, venderei solo birre. Ma non si può». Capita così di trovarsi al Mulligan’s di Milano e sorseggiare birre accompagnate da rognoncini trifolati; oppure parcheggiarsi su uno sgabello di Pazzeria, altro locale storico in città, e ordinare un piatto di trippa alla parmigiana o uno stracotto d’asino.
Non stiamo parlando di cucina creativa, dell’ancor vago interesse degli chef stellati per un prodotto che fino a qualche anno fa tenevano ancora nello stesso spazio refrigerato dei soft drink e nemmeno dello stinco alla birra, piatto passepartout che sta all’Italia non altoatesina come una cacio e pepe sta a Monaco di Baviera. La tendenza è di proporre piatti da trattoria, più o meno ricercati, magari rivisitati, ma onesti e ben fatti. Uno degli apripista è stato il milanese La Ratera dove lo chef Salvatore Garofalo, titolare di un cursus honorum di tutto rispetto con esperienze da Pietro Leeman ed Ezio Santin, propone piatti di spessore ricorrendo a materie prime d’eccellenza. Riso Carnaroli Acquerello per un risotto al Blu di Moncenisio, una minestra di porri, patate e farro, un carpaccio di tonno affumicato con agrumi e aceto di riso giapponese. La sua scuola, pur attraversando momenti di difficoltà legati all’incomprensione di una formula che non prevedeva il classico “birra e panino”, ha lasciato il segno e creato eredi. Fin da subito il Birrificio Italiano di Lurago Marinone, una delle prime avventure di successo nel campo della birra artigianale made in Italy, si è mosso con una filosofia simile puntando a una cucina da godere stando seduti a tavola e concedendosi il tempo necessario. «Che la cucina sia ormai irrinunciabile è vero», ha confessato il titolare di un altro illustre tempio storico brassicolo, il Voodoo Child Pub in provincia di Venezia. «Noi stessi abbiamo in programma una ristrutturazione degli spazi per allargare la nostra dotazione e relativa licenza in modo da garantire un’offerta più ricca, introducendo piatti della tradizione locale».
Altra considerazione da fare è che solo con le birre si fa fatica a realizzare i margini necessari per stare in piedi. Un discorso trasversale che riguarda sia chi lavora al riparo di contratti blindati con le major del settore birrario sia chi preferisce navigare libero nel mare aperto dei millemila microbirrifici. Andrea Pastori alla guida dello Sloan Square di Milano ha le idee chiare: «Per chi come noi lavora esclusivamente su birre di piccoli birrifici indipendenti, la marginalità si è andata riducendo negli ultimi anni. Il food invece permette margini più ampi se tuttavia si è accorti in termini di food cost. Allo Sloan scegliamo con attenzione le materie prime e, nella maggior parte dei casi, le lavoriamo noi. Non compriamo, per fare un esempio, il bacon ma la pancetta fresca che poi saliamo e affumichiamo; stessa cosa per le focacce e il pane o la pasta. Si deve mettere in conto un maggior investimento iniziale in cucina, ma alla fine il risultato può ricompensare gli sforzi fatti». A Roma, l’Osteria di Birra del Borgo segue anch’essa una filosofia simile, con preparazioni casalinghe. E altri casi non mancano, anche al di fuori delle città più grandi dove la cucina è anche un’arma competitiva nei confronti di pub rimasti legate al concetto del panino (o burger) più birra.