Anche in Italia è sempre più diffuso il fenomeno del social eating e degli home restaurants, o ristoranti domestici: cuochi dilettanti e non che si mettono ai fornelli di casa propria e, attraverso social network e piattaforme di prenotazione online, invitano sconosciuti a condividere il pasto dietro pagamento di un compenso.
È lo stesso modello di offerta di servizi da parte di privati cittadini che ha già preso piede in altri campi, dall’ospitalità (Airbnb) ai trasporti (Uber). Fenomeni spontanei di sharing economy, o economia collaborativa, che in molti casi hanno assunto caratteristiche imprenditoriali. E hanno suscitato resistenze e accuse di illegalità e concorrenza sleale da parte degli operatori tradizionali.
Anche i professionisti della ristorazione, come i tassisti e gli albergatori, hanno fatto sentire la propria voce. Le associazioni di categoria, Fipe-Confcommercio e Fiepet-Confesercenti in testa, denunciano i ristoranti “in casa” come un’attività di ristorazione a tutti gli effetti, ma condotta al di fuori delle norme igieniche, fiscali e contributive a cui devono sottostare i locali pubblici. E chiedono alle istituzioni di regolamentare al più presto l’esercizio di questa attività, a tutela del consumatore, della leale concorrenza e del principio di equità fiscale.
“Ospitare persone a casa propria per pranzi, cene o aperitivi dietro pagamento di un corrispettivo specifico è una vera e propria azione imprenditoriale che deve rispettare una severa regolamentazione, alla stregua di qualsiasi altro ristorante”, sottolinea un comunicato Fipe, che evidenzia la mancanza di garanzie igienico-sanitarie offerte dai ristoranti domestici: le statistiche indicano che il maggior numero di tossinfezioni alimentari ha origine in casa.
La risposta delle istituzioni è arrivata con il parere del ministero dello Sviluppo Economico a marzo 2015, che considera gli home restaurants attività imprenditoriali a pieno titolo.
Nell’attesa che una legge regolamenti in maniera precisa il settore, anche alcuni dei principali portali di social eating, per esempio Gnammo e VizEat, chiedono un quadro normativo chiaro e preciso in cui poter operare. Gnammo, in particolare, ha proposto al legislatore di distinguere il social eating - eventi organizzati in maniera saltuaria da privati cittadini con una finalità prevalentamente sociale e senza organizzazione - dall’home restaurant, che al contrario offre prestazioni di ristorazione in modo continuativo e ha un menu. La differenziazione dovrebbe porre anche dei limiti numerici: per esempio, un massimo di 8 eventi al mese o 30 l’anno per essere considerato un social eating, oppure un incasso massimo di 5.000 euro l’anno, secondo l’attuale normativa per le prestazioni occasionali.
«Oltre questi limiti - ha dichiarato Gian Luca Ranno, cofondatore di Gnammo, in occasione dell’audizione alla Camera dei Deputati - riteniamo che il cuoco abbia una finalità che va oltre la convivialità e quindi siano necessarie norme di regolamentazione quali una Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) semplificata e unica a livello nazionale, la formazione dei cuochi secondo precisi contenuti relativi a Haccp e sicurezza alimentare e la redazione di un manuale, anche se relativo a una struttura domestica, di autocontrollo Haccp».
Anche qualche cuoco di professione ha imboccato la strada dell’home restaurant, con modalità ed esiti alterni. Tra questi c’è Marcello Leoni, già chef patron del Sole di Trebbo, dove insieme al fratello Gianluca ha conquistato una stella Michelin. Chiuso quel ristorante, Leoni lo scorso anno ha “aperto” un home restaurant gourmet in un lussuoso loft di Bologna.
«Un luogo bellissimo, talmente bello che i costi non si abbattevano di molto rispetto a un ristorante tradizionale», racconta Leoni, tentato dall’home restaurant per la possibilità di affrontare il lavoro di cuoco da un’angolatura differente. L’impresa è durata poco, solo 3-4 mesi. La formula - niente menu a prezzo predefinito, i clienti pagavano quel che ritenevano adeguato alla prestazione - non ha funzionato. Gli ospiti, lascia intendere Leoni, non riuscivano a percepire il valore di ingredienti di qualità, selezionati e preparati con tutte le garanzie che un team di professionisti offre quanto a igiene e sicurezza. Ma l’home restaurant è naufragato anche a causa dell’incertezza burocratica. «Il Comune non vedeva di buon occhio questa attività e la Regione non aveva le idee chiare», dice. Morale, lo chef ha preferito abbandonare il campo. E da qualche mese ha aperto a Forlì un ristorante “a tutti gli effetti”, insieme al fratello Gianluca e al sommelier Luca Gardini.
Anche Alberto Iacoboni, cuoco al ristorante Cucina Machrì di Pula (Ca), e la compagna Veronica Durso, hanno prima lanciato e poi chiuso un home restaurant nella loro casa di campagna.
«Ospitavamo non più di due eventi a settimana, per un massimo di 15 persone per volta», racconta Iacoboni. Però, quando lo scorso anno è uscito il parere del ministero dello Sviluppo economico che equiparava gli home restaurants ai ristoranti tradizionali, i due hanno preferito interrompere l’attività domestica e, nel caso di Iacoboni, continuare solo con il lavoro al ristorante. «Per noi si trattava di un’attività secondaria e, con le regole attuali, l’home restaurant non può essere un’attività principale, perché i proventi non consentono di sopravvivere», sottolinea Iacoboni.
Federico Bonaconza è cuoco di professione e restaurant manager di un locale di Milano. «Non ho un home restaurant, ma un’attività di social eating - precisa -. Sono un grande appassionato di cucina e mi piace ospitare a casa mia. Organizzo cene sporadicamente, da due a quattro volte al mese, per un massimo di 7-8 persone, appoggiandomi alla piattaforma gnammo.com. Tengo anche lezioni di cucina a domicilio o a casa mia. Il social eating non è un’attività commerciale, non dà un reddito che consenta di vivere - continua -. Anche perché, al contrario di quel che avviene al ristorante, non hai fornitori che ti fanno sconti in base alla quantità che acquisti o ti permettono di pagare a 120 giorni. La spesa per cucinare si fa al supermercato. Il contributo che danno gli ospiti serve a rimborsare le spese, il guadagno è pochissimo, non commisurato al tempo e all’impegno che uno profonde, ma con gli stessi prezzi del ristorante non verrebbe nessuno. Lo faccio per pura passione». Per Bonaconza, il social eating in nessun modo entra in concorrenza con il settore della ristorazione: «È una minaccia completamente inesistente», afferma.
Tra chi invece ha abbracciato la formula dell’home restaurant c’è Fabrizio Siragusa, che in passato ha lavorato in ristoranti e pizzerie e che a Genova ha dato vita al ristorante Nonna Leo (www.nonnaleo.it) nel proprio domicilio.
Fabrizio cucina le ricette della nonna Leonilda, una pimpante ultranovantenne. L’attività è cominciata come social eating, poi, vedendo che prendeva piede grazie al passaparola e alle recensioni su Tripadvisor, si è trasformata. «Abbiamo registrato la partita Iva e presentato la Scia», dice Fabrizio. Ospita solo la sera fino a 15 persone. Il menu è quello definito dal primo ospite che prenota, che può scegliere tra una rosa di piatti tipici genovesi; se altre persone si aggregano il menu non cambia. I prezzi? Intorno ai 15-20 euro a testa. Il vino non è servito, ma chi vuole può però portare la propria bottiglia.