Nuovi stili, nuovi ingredienti, nuove sensibilità. In generale una nuova e maggiore cultura caratterizza oggi il lavoro degli chef. Che sono più attenti a quanto propongono alla clientela e anche a come lo propongono. Vero? Falso? Abbiamo posto tali questioni ad alcuni professionisti. Ne è emerso un quadro delle tendenze attuali e future nella ristorazione. E anche una serie di segnali oggi ancora deboli, ma da tenere d’occhio.
Tendenza ormai radicata, la riscoperta di antichi ingredienti non è solo voglia di tradizione, anzi va ben oltre il semplice territorio o il chilometro zero. È una tendenza che abbraccia la sostenibilità ambientale, la biodiversità, la ricerca gastronomica, il gusto, e che vive anche una non secondaria motivazione economica (proporre ricette basate su materie prime inusuali è una fondamentale leva di attrazione nei confronti della clientela). Parliamo di materie prime come grano, pesci, carni, verdure, legumi dimenticati negli anni e ora sempre più conosciuti da chef e clienti. Dai vari mais, quasi emblemi “anti Ogm”, come Marano, Biancoperla, Ottofile, ai legumi, come la fagiolina del Lago Trasimeno o quella di Arsoli e le numerose varietà di ceci (Cicerale, Navelli, il piccolo del Valdarno e tanti altri) per continuare in una lista che diventa sempre più consistente grazie a piccoli allevatori e coltivatori che dedicano passione e risorse a tali prodotti. Fondamentale il ruolo della ristorazione che li sostiene acquistandoli (spiegandoli poi ai propri clienti) e creando un circolo virtuoso che aiuta l’economia di interi territori. «Verdure, ortaggi, fiori, tuberi, radici saranno i protagonisti dei prossimi anni - dice Vincenzo Candiano, chef della Locanda Don Serafino di Ragusa, una stella Michelin-. E poi dovremo dare spazio al pesce azzurro e ai pesci alternativi così da evitare il sovrasfruttamento delle solite specie». Il tutto all’insegna della reazione all’appiattimento del gusto e di una ritrovata (si spera) biodiversità.
Del resto siamo sempre più consapevoli che “mangiare è un atto agricolo”. Una frase (e un libro) del romanziere, ecologista e agricoltore Wendell Berry, diventata motto di Expo2015. Una realtà di cui i ristoratori sembrano essere sempre più coscienti e che nelle cucine professionali può avere risultati inaspettati non solo in termini etici, antispreco ed economici, ma proprio sotto il profilo dei risultati gastronomici. Se fino a non molto tempo fa si stentavano a trovare al ristoranti tagli di carne e pesce meno che “nobili” ora la mentalità è differente. Nulla o quasi è inutilizzabile, perché disidratando, friggendo, cuocendo a bassa temperatura, emulsionando, pacossando, gli “scarti” non sono più tali. Non si contano più i cuochi che dalla pelle del pesce ricavano croccanti chips, che usano la buccia delle melanzane, fritta, per dare la texture croccante a un piatto, o creano polveri aromatiche dai porcini (Theo Penati docet) o ancora dalle bucce di pomodoro o i baccelli di piselli essiccati, come fa Massimo Moroni, che le usa sia per insaporire che per decorare. Persino i fondi di caffè, grazie all’intuizione gastronomica di uno chef come Denny Imbroisi – cuoco italiano trapiantato a Parigi (ha lavorato come sous chef di Alain Ducasse) che si sta facendo notare nella Ville Lumière - acquistano dignità. Come dire: la cucina a spreco zero sarà la sfida del futuro.
Altro capitolo, la salute. La ricerca della salubrità, l’alleggerimento, l’introduzione di nuovi sapori. Non sono una novità degli ultimi tempi questo è certo. Quello che di sicuro rappresenta una novità è il modo, gli ingredienti e in qualche caso le tecniche di cucina messe in atto per raggiungere questi obiettivi. Dalla cottura sottovuoto a bassa temperatura (che esalta le caratteristiche della materia prima, limitando l’utilizzo di grassi e sale in cottura) all’introduzione di nuove materie prime, tutto punta a raggiungere l’obiettivo di una cucina più sana, più saporita (o forse sarebbe il caso di dire “diversamente saporita”) e anche più bella. Alghe globali e erbe locali ricche di vitamine e sali minerali vengono riscoperte, ritrovate e ristudiate nei loro usi tradizionali, ma anche in nuovi e interessanti utilizzi. Ecco quindi che Caterina Ceraudo del Dattilo di Strongoli utilizza, per esempio, le foglie di agrumi in alcune sue ricette mentre Michele Biagiola dell’Enoteca Le Case a Macerata, tra i professionisti più attenti e interessati alle erbe, stupisce i clienti con la sua pasta all’arrabbiata, che assume una piccantezza via via crescente grazie a sette erbe e in totale assenza di peperoncino e in quasi totale assenza di grassi. Niko Romito, del Reale di Castel di Sangro sostituisce le uova (e quindi il colesterolo che contengono) in alcune preparazioni con una sostanza simile all’albumina, ottenuta grazie a un estrattore dalle teste degli scampi. Questa diventa poi alternativa all’uovo nell’impasto delle sue Tagliatelle di scampo, oltre che condimento per le stesse.
Non è passato tanto tempo. Eppure nei ristoranti si è passati velocemente dalla cucina fusion al revival della tradizione, dall’esterofilia gastronomica a una cucina che sbandiera un quasi impraticabile Km0. È uno slogan che può anche convincere il consumatore, ma a conti fatti è una carta da giocare solo se davvero si può vantare frutta e verdura dall’orto di casa. Pena la perdita di credibilità.
Il parametro di scelta utile non è la distanza dalla zona di produzione bensì la qualità del prodotto. Lo ribadisce, uno per tutti, lo chef Andrea Aprea dello stellato Vun (Mi): «La mia scelta dipende dalla qualità di un ingrediente, che arrivi da 4 o da 400 chilometri. Come scegliere? Conoscendo il produttore, i suoi metodi di produzione e la storia stessa del prodotto, perché è questo ciò che dà valore a quello che arriva alla tavola del cliente». La contrapposizione tra local e global sta dunque perdendo senso, anche perché in ristorazione si è trovata una terza via, quella di una cucina che sposa le ricette del territorio con ingredienti altrui. Una virtuosa “contaminazione” come fa Yoji Tokuyoshi (rist. Tokuyoshi, Mi) che usa ingredienti italiani per creare una cucina memore delle sue origini giapponesi. E lavora verdure, pasta, riso, con pochi condimenti e cotture rapide in stile giapponese e coniuga la pasta all’uovo con ripieni orientaleggianti. Così combava, daicon, ocra, quinoa e quant’altro diventano familiari; per non parlare della carne di manzo “wagyu style”, il Kobe beef di origine giapponese, che è apprezzato e da poco allevato anche in Italia. Niente di nuovo in realtà. È la storia che si ripete. Ovvero l’integrazione gastronomica tra culture diverse, una risorsa da sfruttare.
Ecco le testimonianze di quattro professionisti.
Raffaele Ros- Chef e patron Ristorante San Martino - Scorzè (Ve)
Salubre e innovativa. Aumentare la digeribilità di una ricetta senza nulla togliere al suo profumo e sapore. Non è uno slogan ma semplicmente il risultato che si ottiene grazie all’utilizzo di determinate materie prime. Come, per esempio alghe e erbe, molto utilizzate da Raffaele Ros in alcune sue ricette. «L’utilizzo di questi ingredienti, la conoscenza delle tecniche di cucina, le lavorazioni rapide e la naturalità dei prodotti sono le basi di una cucina sana e gustosa. Quali tra questi ingredienti utilizzo nella mia cucina? Davvero molti. Alga Nori, lattuga di mare, salicornia, orecchie di lepre (o piantaggine), silene, crespino, le diverse valeriane, caccialepre (o grattalingua), pungitopo (in stagione), raperonzolo e poi luppolo selvatico o bruscandolo e molto altro. Alcune caratterizzano perfettamente le ricette del mare, altre aggiungono freschezza a primi e secondi piatti. Tutte aiutano a eliminare sale e grassi». E i risultati? «In alcune ricette - dice Ros -, sono riuscito a eliminare completamente il sale oltre che ad aver ridotto notevolmente l’utilizzo di grassi».
Matias Perdomo - Chef e patron Ristorante Contraste - Milano
Coscienza glocal. Da settembre ’15, dopo 15 anni al Pont de Ferr che con lui ha conquistato la stella Michelin, lo chef uruguayano ha aperto Contraste a Milano. «Prima una novità, poi una moda, la cucina fusion ora si è integrata a quella locale e i cuochi hanno imparato a conoscere e usare ingredienti che una volta erano sconosciuti. La cucina italiana è una di quelle che ha più radici profonde e questo le permette di “reggere” alle innovazioni. Certamente serve conoscerne gli ingredienti e la tradizione a fondo, ma l’apertura mentale che oggi abbiamo verso i prodotti del mondo, le tecniche e i nuovi abbinamenti consentono uno sviluppo del tutto nuovo della cucina. Va bene proporre i prodotti del proprio circondario ma questo non è sempre possibile. Per chi opera in città il Km0 è una Chimera. E spesso lo è anche per chi opera in un territorio agricolo. Non raccontiamo belle favole, bisogna essere sinceri con la clientela». In sostanza: scegliete il meglio dando magari priorità alla produzione locale, ma non rinunciate a qualcosa solo perché prodotto fuori zona.
Giuseppe Costa - Chef e patron Il Bavaglino - Terrasini (Pa)
L’antico che funziona. “Granaio d’Italia” e patria, in passato (purtroppo), della biodiversità, la Sicilia sa spaziare tra mare e terra anche per la produzione di molte altre materie prime perse nel tempo e oggi in via di recupero. «Utilizziamo il grano Tumminia sia per il pane che porto in tavola sia per un “crostone” che abbiamo in menu oggi. Lo stesso vale per il grano russello (o rossello, ottimo nella preparazione di pane pregiato, molto diffuso in Sicilia prima della seconda guerra mondiale e poi abbandonato, ndr) oppure per il Senatore Cappelli che usiamo per le paste. Ma se guardiamo anche ai legumi il panorama di possibilità è ampio. Dal fagiolo Badda ai ceci prodotti nella zona di Alcamo al fagiolo cosaruciaru di Scicli o alle lenticchie di Ustica. Ma intendiamoci. Io non sono per il Km0 perché di ottimi ingredienti è pieno il mondo. Credo però che il lavoro di alcuni giovani che con grande cultura hanno ricominciato a lavorare su determinate materie prime vada premiato anche perché, egoisticamente, usando quei prodotti so di poter offrire ai miei clienti sapori davvero superiori».
Denny Imbroisi - Chef Ristorante Ida - Parigi
Avanzi d’autore. Classe 1987, diplomato a Mantova e formatosi prima al San Domenico di Imola, poi da Giancarlo Perbellini, Corrado Fasolato, Quique Dacosta, Mauro Colagreco; da 8 anni è a Parigi dove è stato sous chef di Alain Ducasse. Attualmente è titolare del bistrot gourmet Ida, sempre a Parigi.
Al recente congresso Identità Golose (negli incontri dedicati al caffè e pensati con Lavazza) ha tenuto una lezione su come riutilizzare i fondi di caffè Kafa (essiccati, frullati e miscelati con farina) per realizzare dei tagliolini al caffè conditi con bucce di limone. O ancora per marinare e cuocere a bassa temperatura la guancia di vitello. «Detesto gli sprechi - dice - e in cucina cerco sistemi per buttare il meno possibile: dall’uso delle bucce dei legumi per fare salse o zuppe alle foglie delle carote che fritte sono ottime. È un aspetto etico che ci riguarda tutti, anche se dal punto di vista puramente economico per il ristoratore questo richiede un notevole impegno in termini di ricerca e di costo-lavoro. Ma è giusto che ciascuno faccia la sua parte. E non solo il ristoratore, ovviamente».
Nella foto: tagliatelle al caffè realizzate da Denny Imbroisi con gli avanzi del caffè opportunamente trattato
Foto: Brambilla-Serrani per Identità Golose