Prove tecniche (riuscite) di ripartenza: la rinascita della sala

Le testimonianze di Massimo Bottura, Franco Pepe e Enrico Bonocore raccontano lo spirito e le soluzioni adottate per garantirsi una ripartenza in sicurezza

Beautiful young waitress with face protective mask working in exclusive restaurant. Coronavirus or Covid-19 concept.
L'emergenza sanitaria ha reso indispensabile reinventare in modo del tutto nuovo i rituali di servizio in sala. Fra mascherine, dehors, separè, in questa fase resta un fil-rouge: trasmettere sicurezza e senso di accoglienza

Dopo l’inizio della fase 2, la ripartenza non è uguale per tutti. «La ripresa c’è, però è molto diversificata - conferma Matteo Lunelli, presidente e amministratore delegato di Cantine Ferrari - a seconda delle regioni, dei paesi e delle situazioni. Tirando le somme del primo mese, la sensazione è che c’è stata una ripartenza graduale, con tante difficoltà. Dal nostro punto di osservazione, vediamo che hanno ripreso bene i locali che hanno spazi all’aperto, forse hanno ripreso meglio i bar rispetto ai ristoranti ed è probabilmente avvantaggiato il mondo delle spiagge, dei luoghi di vacanza. La situazione è più difficile nelle grandi città. In particolare, Milano sta accusando non solo la mancanza di turisti, come tutte le città d’arte, ma anche l’effetto dello smart working». Così si è espresso Lunelli in occasione del webinar  “Identità di Sala - Rinascita: i primi passi” organizzato dal Gruppo Lunelli in collaborazione con Identità Golose, durante il quale alcuni imprenditori della ristorazione e dell’ospitalità hanno portato le rispettive testimonianze.

Il distanziamento sociale creativo della Langosteria

Tra questi, Enrico Bonocore, socio fondatore del marchio Langosteria. L’ultima settimana di giugno Bonocore era impegnato nel riavvio del ristorante di Paraggi (Ge), dopo averne riaperti due su tre a Milano. «Ogni riapertura è come ripartire da zero», dice, dichiarandosi soddisfatto per i numeri da record subito registrati nel locale ligure che segnalano anche un cambiamento di comportamento da parte della clientela. «Domenica sera - racconta - è sempre stata una serata tranquilla, molti lasciavano la Riviera prima di cena per rientrare in città. L’ultima domenica di giugno, invece, abbiamo servito 170 coperti, numeri mai visti. Molti fanno smart working dalla casa al mare, vivono lì o sono andati in vacanza prima. A Milano i numeri sono inferiori a quelli cui eravamo abituati, ma il lavoro è costante, con clienti solo locali ai quali dobbiamo parlare nella maniera corretta: l’offerta dei nostri ristoranti deve tenere conto di questo nuovo consumo».

Nei mesi di lockdown, continua Bonocore, si è pensato a come riaprire i locali, alle procedure da adottare. Un risultato è quello che l’imprenditore chiama “distanziamento sociale creativo”, realizzato utilizzando il verde per dar vita a nuovi dehors e a “séparé divertenti, piccoli salotti unici”, mentre orsacchiotti di pezza tra i tavoli, oltre a segnalare la distanza, vengono fotografati e finiscono su Instagram. «Un tavolo vuoto per me è una sofferenza - dice Bonocore - un metro tra due tavoli è una distanza enorme», però, grazie a tutto questo, il ristorante Langosteria di via Savona, che prima del lockdown aveva 110 coperti (passati ora a 55-60), oggi serve in media 110-120 coperti a sera, con uno scontrino medio “importante”. Dopo il lockdown, la clientela di Langosteria «ha voglia di normalità, mangia tanto e beve bene, si fa consigliare», dice Bonocore. Certo, continua, la mascherina che i camerieri devono indossare è un limite, «però abbiamo imparato a sorridere con gli occhi e ad essere attenti all’esperienza del nostro cliente». In questo momento, il terzo ristorante milanese a marchio Langosteria rimane chiuso al pubblico, perché la sua cucina è utilizzata per il servizio di delivery lanciato con successo durante il lockdown, insieme al servizio di chef a casa. Il commento finale di Bonocore: anche in questo momento si può lavorare bene, pur rimanendo attenti davanti al rischio che i focolai ripartano. «Dobbiamo lavorare - conclude - per garantire a ospiti e collaboratori un’esperienza sicura. Noi facciamo esami ai nostri collaboratori ogni settimana e cerchiamo di avere la collaborazione del cliente, per esempio, per il rispetto degli orari. Perché la ripartenza sia solida occorre che facciamo tutti insieme uno sforzo importante».
Quella della sicurezza è una preoccupazione comune. «Noi abbiamo riaperto Locanda Margon - dice Matteo Lunelli - e abbiamo messo in atto un sacco di regole e protocolli. Col tempo, però, ci siamo resi conto di che cosa poteva essere eccessivo nei confronti del cliente e quel che invece era giusto; con l’esperienza siamo riusciti a tarare il nostro comportamento che però deve evolvere, anche perché la stessa percezione dei clienti evolve».

Bottura: «Il tempo delle lacrime è finito. Occorre tirare fuori il meglio di sé»

Concorda sulla necessità innanzitutto di salvaguardare il proprio team e i clienti anche Massimo Bottura, chef patron dell'Osteria Francescana di Modena che ha riaperto il 2 giugno. Fondamentale è il dovere sociale da parte dell’imprenditore nei confronti dei propri collaboratori. «Ho deciso di chiudere il ristorante prima ancora che Modena fosse dichiarata zona rossa, per tenere al sicuro il team», dice lo chef. Prima di riaprire, Massimo Bottura ha aspettato un paio di settimane dopo il 18 maggio per vedere come andavano i numeri del contagio, ha fatto fare i test al personale e ha predisposto i dispositivi di sicurezza.
«Abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare», dice lo chef che durante la quarantena “ha lavorato tantissimo” anche a progetti di nuove aperture, tra cui il nuovo ristorante negli spazi della Ferrari di Maranello che aprirà la prossima primavera. Già dai primi giorni dalla ripresa del servizio, La Francescana ha ingranato subito una marcia alta: «Non abbiamo perso un tavolo. Quando abbiamo visto che la gente arriva dall’Italia, e ora anche dall’estero, ci siamo lasciati tutto alle spalle», dice Bottura rivelando che molti (compreso il vicino di casa) - sono nuovi clienti che non erano mai riusciti a prenotare per via delle lunghissime liste d’attesa del ristorante nell’era pre-Covid19. «Ciò è emozionante - conclude lo chef - credo però che in questo momento la cosa più importante sia un invito: il tempo delle lacrime è finito. Ora le menti creative devono tirare fuori il meglio di se stesse, essere d’esempio, creare format, fornire idee utili per tutti».

Franco Pepe: focus sull'accoglienza

La pizzeria gourmet Pepe in Grani del pluripremiato pizzaiolo Franco Pepe si trova a Caiazzo (Ce), borgo di 5mila abitanti tra le colline dell’entroterra campano. «Lavoro per il 99% con persone che vengono da fuori. Prima della pandemia arrivavano da me ogni mese 13-14mila persone di nazionalità diverse», racconta Pepe che durante il lockdown non ha fato né asporto né delivery, vista la mancanza di un bacino locale ma, con tre aiutanti, ha panificato e sfornato pizze a ciclo continuo da donare per “esorcizzare la paura” e stare a contatto con gli altri, condividendo. Pepe ha riaperto il 2 giugno, diminuendo i posti a sedere del 30%, rimanendo aperto tutti i giorni “per far lavorare tutti i ragazzi”.
«Ho dovuto strutturare un nuovo menu, ho investito per il futuro, con un patto di alleanza con il cliente e con la formazione della sala focalizzata soprattutto sull’accoglienza. Oggi i clienti vengono e si sentono sicuri». I risultati sono stati più che lusinghieri: nelle prime 4 settimane, in 32 turni ha servito 11mila persone. Così, a solo a due settimane dalla riapertura, tutti e 43 i dipendenti sono rientrati al lavoro dalla cassa integrazione e Pepe punta a nuove assunzioni. Ha anche spinto l’acceleratore sul completamento dell’offerta all’insegna della qualità, stringendo un accordo con un torrefattore di Napoli. Altre novità sono il menu degustazione di soli fritti, il dehors con tre tavoli “del silenzio” e il voucher per una consumazione nel bar della vicina piazza, regalato ai clienti per evitare assembramenti.

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