Da Carter Oblio a Roma pane e fermentati sono al centro della scena

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Storia, filosofia e cucina del Carter Oblio di Roma. Lo chef Ciro Alberto Cucciniello guarda in primo luogo a pane e fermentati

Almeno cinque, tra pagnotte, filoni e baguette, e sempre almeno due o tre kimchi in lavorazione. E poi un green egg che lavora a pieno regime, paste fresche e erbe. Accade nella cucina di ciro Alberto Cucciniello al carter Oblio di Roma.

Gli inizi

Gli esterni del Carter Oblio situato nel quartiere Prati

Bisogna cominciare dal nome, che deve essere spiegato. Carter Oblio è l’anagramma dei due nomi dello chef Ciro Alberto Cucciniello. Già questo basta a identificare il ristorante come un progetto identitario, che lo chef campano ha cucito addosso a sé e alla sua compagna, Joana Razmyte, che con grazia gestisce la sala e il reparto vini.

Continuiamo con il quando, il 2020, perché va detto che questo ristorante è nato in piena pandemia, ritardando scientificamente l’apertura di qualche mese, ma una volta preso coraggio, ha affrontato il saliscendi di chiusure anticipate, limiti al numero dei commensali e gli altri ostacoli che la situazione contingente continua a causare.

Dove e come

Finiamo con il dove: siamo a Roma, in zona Prati, a due passi dal cosiddetto Palazzaccio, ovvero la Corte di Cassazione. Un quartiere di lusso, altospendente, e con un viavai di avvocati, anche se, dice Cucciniello, «non sono gli uffici il nostro target, per questo finora abbiamo lo stesso menu a pranzo e cena. Stiamo pensando solo di proporre dai prossimi mesi un menu lunch, ma senza stravolgere la cucina».

Contaminazioni

Una cucina dove non mancano le contaminazioni nordiche, specialmente nel design della sala, dove spiccano le note naturali del legno, del ferro e del vetro lavorati a mano. Forme rigide e un impianto volutamente minimalista, costruito per chi ammette di non essere affatto minimalista, quanto piuttosto un accumulatore seriale.

«Abbiamo voluto un ambiente pulito perché facesse da tavolozza e potesse cambiare di giorno in giorno, consentendomi di stratificare le mie personalizzazioni, che rincorrono le mie passioni, come i libri i e dischi», dice Cucciniello. Notevoli anche le distanze fra i tavoli, che vanno oltre le necessità di distanziamento.

Stesse attenzioni anche nel dehors, dove la ventina di posti sono ben sfruttati a pranzo anche nella stagione invernale, e che hanno aiutato molto quando si poteva star solo fuori. È per questo che lo spazio esterno non appare come un’improvvisazione, ma risulta una prosecuzione della sala, con una pedana costruita con gli stessi legni dell’interno e il medesimo tocco nordico nelle intenzioni.

Fermentazioni e dintorni

Lo Sgombro a beccafico con uvetta, arancia candita, finocchietto e pinoli

Qualcuno mangiando la cucina di Cucciniello penserà che anche in questo campo ci sia del nordico, specialmente per l’ampio utilizzo di fermentazioni.

Eppure, chiarisce lo chef: «La fermentazione non l’hanno inventata mica i nordici. Fa parte della nostra cucina mediterranea, come la colatura di alici, che mia nonna faceva in casa e che io oggi preparo al ristorante». Non solo moda, quindi, ma quello che lo chef definisce un «imperativo etico, ma anche economico e organizzativo interno perché oltre che cuochi siamo imprenditori e dobbiamo avere sempre un occhio ai conti».

Filosofia

Lo zero waste è una filosofia che è entrata a pieno titolo nelle cucine moderne e che Cucciniello ha fatto propria grazie a un mix di tecnologia e antica sapienza. «Mi piace trovare riutilizzi alternativi di ogni parte di scarto. Abbiamo due essiccatori sempre pieni per preparare foglie, polveri, chips da soffiare o friggere o rinvenire in acqua bollente. Abbiamo sempre due-tre kimchi in linea, fra i dessert usiamo le susine cosce di monaca in lattofermentazione, e ancora ho sempre in carta l’aglio nero, che ora propongo sia nelle Caramelle di scorzonera e tartufo, sia in un mezzo pacchero con aglio nero, carciofi e lardo».

Senza dimenticare la colatura di alici di cui sopra e un garum fatto con le lische dei muggini che sono in carta. «Ho modificato un frigorifero per avere una temperatura un po’ più alta, dai 12 ai 28 gradi, per poterlo utilizzare come camera di fermentazione sia per i pani, che per gli yogurt», aggiunge lo chef.

Il pane

A proposito di pani, questo è uno dei punti fondanti della cucina di Carter Oblio. Cucciniello prepara ogni giorno almeno cinque differenti tipologie, dalla baguette di farina affumicata da lui, alla pagnotta con cioccolato amaro e noci, dal pane alla ’nduia (che, specifica, “va nell’impasto”), alla focaccia semintegrale alla salicornia, dalla focaccia con genovese di cipolla ramata di Montoro, al pane bianco cotto su pietra dopo 96 ore di lievitazione.

E ancora grissini, ciabatta all’olio, pane in cassetta di segale all’uva sultanina, babà salato cacio e pepe e chi più ne ha più ne metta. «Per me il pane è una vera passione, mi diverto a giocare con gli impasti, regolare l’acidità del lievito madre, decidere quando non è questo lo starter migliore», racconta lo chef.

È così che il pane è diventato parte integrante e fondante della proposta e vero protagonista dei menu degustazione. Probabile che sia anche motivo esso stesso di richiamo per la clientela.

Contemporaneo il servizio, che come si diceva è affidato alla compagna dello chef Joana Razmyte, perfetta padrona di casa, che introduce i piatti con eleganza, ma mai in maniera affettata. È lei che si occupa della definizione della carta dei vini, dove non mancano i vini naturali, che tuttavia non sono gli unici protagonisti.

 

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