La passione da “cuciniere” gli è venuta in quinta elementare grazie alla bravura delle donne di casa. Il nome del locale ripercorre invece i suoi ricordi del servizio di leva quando, pur essendo fuciliere, era chiamato a prestar servizio per preparare i pasti dei commilitoni in caserma. Massimo Dionigi è titolare e chef dal 2006 de Il Cuciniere a Fano. Con la moglie Roberta - insieme all’aiuto-cuoco Marco, un lavapiatti e un cameriere - è da allora che gestisce questo piccolo bistrot di due sale, 34 coperti, tovagliette di jeans e bicchieri colorati, travi a vista e pavimento a scacchi, cortile interno con piante e lucine, libri di storia locale e alcuni vini a vista.
Due facciate di menu e due di carta vini: una decina gli antipasti, altrettanti i primi, secondi e dolci. Senza pacchetti degustazione e con una proposta di 11 bottiglie di bianchi (di cui 7 marchigiani) e 22 rossi (12 i marchigiani), con birre in bottiglia tedesche e fanesi (del birrificio locale Renton) e vino sfuso o tre mezze bottiglie (tutte marchigiane). A Fano, 61mila abitanti per la terza città delle Marche, in questa sede, una via tranquilla a pochi passi dalla stazione e dal centro, esisteva una trattoria sin dal 1938. «Noi siamo la gestione più longeva, dopo la famiglia Serafini» racconta Dionigi ricordando chi furono i primi ad aprire qui un’attività di ristorazione e assieme la festa del decennale del locale nel 2016. «Quando ho aperto ho subito dato l’impronta di un ristorante di terra. Ho spinto sulla tradizione, ma con molte sfaccettature. Prendo spunti e suggestioni da ogni singolo viaggio, da cui assorbo come una spugna e questo inevitabilmente arricchisce me e si ripercuote nella mia cucina. Ogni volta riporto a casa nuove ricette e nuovi ingredienti: bacche di vaniglia dal Madagascar, il tè Lapsang dall’Asia... Sono loro i miei souvenir».
Di ricordi di viaggio a menu ce ne sono parecchi. In Paesi esotici lontanissimi così come dietro casa tra i filari delle colline poco distanti. Così piatti tipici della zona, come i fritti misti all’ascolana, si incontrano con un carpaccio di maiale dané con cranberries e olio (locale) aromatizzato con vaniglia del Madagascar, mentre i tortelli ripieni di pasticciata strizzano l’occhio al chimichurri di bufalo e poi invece sposano il filetto di canguro ai semi di papavero con una salsa di rape rosse, per finire su un letto di sfogliatine croccanti con mousse al cioccolato (blend al 70% della fascia equatoriale). «Ogni anno - prosegue - approfitto del periodo in cui siamo chiusi per le mie esplorazioni. I primi tempi rivoluzionavo maggiormente il menù al ritorno, ora invece non apporto sempre grossi cambiamenti, perché ci sono piatti, per così dire storici, a cui la nostra clientela si è giustamente affezionata ed è giusto che li ritrovi sempre. Per questo, lavoro sui fuori menu, un piccolo restyling in cui propongo prodotti stagionali come i tartufi, cibi secondo disponibilità (come la zebra o lo struzzo) e nuove pietanze. Penso per esempio di introdurre a breve degli strozzapreti fatti a mano con un ragù bianco di faraona che chiamo torbato, perché avrà un sentore affumicato grazie all’oculato dosaggio di un’aromatizzazione al tè Lapsang. La nostra pasta è tutta fresca e artigianale, ma mi rifornisco da una piccola realtà locale, la Coccodè di Filippo Pacino, perché non riuscirei a produrla in proprio in questi spazi. È più grande la cucina che ho a casa mia di questa. Però un posto così piccolo dà il vantaggio che posso seguire anche la sala. A me piace uscire e spiegare i piatti ai clienti ai tavoli. Così ho tutto sott’occhio, altrimenti sarebbe impossibile».
Spiega quindi per quanto riguarda le materie prime: «Prendo quel che Madre Terra ci offre, a seconda del ciclo delle stagioni e dei luoghi. A breve farò un giro nelle terre del Prosecco e conto di tornarmene a casa con un po’ di contatti per radicchio tardivo e asparagi bianchi.
Per esempio, grazie a un amico, sono riuscito a reperire i fagioli bianchi di Pigna, che hanno una qualità eccelsa, ma non in tanti li conoscono e molti altri non sanno come trovarli. Così come l’estate scorsa sono andato in Puglia e ora acquisto lì un blend di olive molto equilibrato che utilizzo per cucinare, insieme all’olio della Cantina Di Sante, qui della zona, che uso a crudo. Ritengo che, nei limiti del possibile, noi ristoratori si debba esser felici che i clienti ci vengano a trovare, non solo per i piatti buoni, ma anche per la genuinità dei nostri prodotti. Sta a noi fare questo lavoro di ricerca. Che è poi anche massima qualità al giusto prezzo, ovvio».
Così, mentre chiarisce di avere una manciata di fornitori per le carni - tra cui un importatore di carni esotiche, che però gli arrivano attraverso due diversi rifornitori - rivela di esser stupito dalla fidelizzazione di alcuni clienti. Affezionati che lo seguono da quando nel 1999 aveva aperto Il Barone Rosso in zona aeroporto (specialità del tempo la paella) come anche abitanti della via che ripetutamente sperimentano qui un viaggio gastronomico tra i sapori di altre terre a pochi passi da casa propria. «Internet è il passaparola del nostro secolo – conclude – ma funziona ancora bene l’indicazione in strada! Tanti concittadini consigliano i turisti mandandoli da me e devo dire che sentirmi dire che il mio è un posto metropolitano è sempre un bel complimento».