Erano oltre duecento i cuochi che si sono ritrovati a Bologna per la decima edizione del simposio “Le stelle della ristorazione”, indetto dall’Associazione Professionale Cuochi Italiani Apci. Una “due giorni” di workshop, incontri e dimostrazioni durante i quali è stato aperto un focus di particolare attualità: l’importanza della formazione dei giovani sia nelle scuole, sia durante i periodi di stage nelle cucine dei ristoranti.
Un argomento d’importanza centrale per il settore, che per l’occasione ha visto riuniti in una tavola rotonda numerosi professionisti emiliani, a confrontarsi sul tema “Il commis che vorrei”.
Perché la cosiddetta “emergenza sala” è un fatto risaputo, per risolvere la quale in molti professionisti si battono. A partire dal direttore di sala e sommelier Beppe Palmieri dell’Osteria Francescana di Modena, che da tempo ha aperto un blog e insieme ad altri professionisti ha varato l’associazione “Noi di sala”. Ma anche la cucina vive momenti non facili, quando si parla dell’avvento e della formazione di nuove generazioni ai fornelli.
Le note dolenti sono svariate, a sentire gli chef patron che hanno dato voce al dibattito: a partire dalla mancanza del cosiddetto “fuoco sacro” che più o meno tutti vorrebbero veder ardere in un giovane commis, spesso meno che ventenne. Che non di rado ha scelto la strada dell’istituto alberghiero non tanto per vocazione verso il mondo della ristorazione, quanto per l’idea (infondata, per quanto riguarda le nostre scuole professionali di eccellenza) di affrontare un tipo di studio non particolarmente impegnativo. Senza tenere conto, invece, che anche in questi istituti, come in altre scuole superiori, si studiano materie base come italiano, storia, matematica, lingue straniere, chimica e diritto. A cui si aggiungono le materie più strettamente connesse alla professione, come scienza degli alimenti, scienza e cultura dell’alimentazione, analisi e controlli chimici dei prodotti alimentari, solo per citarne qualcuna.
Dunque, sul fronte scolastico le materie di studio ci sono, eccome. Peccato che molti professionisti di lungo corso lamentano non solo la poca preparazione delle nuove leve, ma anche la mancanza di senso di sacrificio, che i più ritengono debba essere inscindibilmente legato alla professione di cuoco.
Tanto che Agostino Iacobucci del ristorante I Portici (Bo) sottolinea con rammarico: «È giusto che i giovani abbiano un tempo per imparare, ma oggi arrivano in cucina, non sanno fare praticamente nulla e il loro primo pensiero è quello di conoscere orari e compensi. Pensare che un tempo mio padre ha pagato per farmi fare l’apprendistato…».
Rincara la dose Alberto Rossetti de Il Tramezzo, sollevando un problema che sicuramente le generazioni precedenti non hanno vissuto: «Il rispetto è indispensabile - sottolinea - e non consiste solo nel dire sempre “si chef”. Ci sono ragazzi che entrano in cucina e sono sempre attaccati al telefonino, preparano un piatto, lo fotografano e lo postano sui social mentre lavorano. Questo non va bene, non è rispettoso né verso chi sta insegnandoti una professione, né verso se stessi».
Lavorare nella una cucina di ristorante, si sa, richiede concentrazione e dedizione, oltre che competenze e di sicuro molti cuochi avventizi si sentono attratti dall’aspetto mediatico del lavoro ai fornelli. Master Chef docet. Tanto che, da quanto va in onda il programma, gli istituti alberghieri hanno registrato un boom di iscrizioni. Basti sapere che nel 2015, su un totale di 537 mila iscrizioni censite dal Miur (Ministero Istruzione Università e Ricerca), per la prima volta il numero di iscrizioni all’alberghiero (48 mila) ha superato (anzi doppiato) quello degli istituti tecnici (20 mila).
Ma non è tutto fumo, non si può generalizzare: esistono aspiranti professionisti la cui voglia di imparare è fortissima, ma deve trovare costante linfa, stimoli e adeguati incentivi da parte di chi trasmette loro il testimone. Come è abituato a fare Alberto Bettini, titolare della ormai secolare Trattoria da Amerigo di Savigno (Bo). Che dice: «Il mio obiettivo con questi ragazzi è riuscire a creare un gruppo di persone che abbiano la voglia prima di imparare e poi di rinverdire la tradizione. Che abbiano desiderio di conoscere i prodotti e i validi produttori locali, quelli che devono essere pagati il giusto perché possano continuare a dedicarsi a produzioni di qualità. Così noi ristoratori saremo in grado di creare una rete virtuosa di fornitori».
Un senso etico da inculcare ai futuri cuochi, che secondo Bettini li abituerà non solo alla correttezza nei confronti dei fornitori, ma anche a non sprecare preziosa materia prima.
Dare la responsabilità di una preparazione a volte carente alle scuole o ai giovani stessi, tout court, è troppo facile. Come ammette senza mezzi termini Paolo Gramaglia del ristorante President di Pompei: «Sta a noi entusiasmare i giovani, trasmettere a loro la cultura del lavoro e far capire che il futuro della gastronomia italiana è nella nostra tradizione, interpretata senza false nostalgie. Ai giovani commis chiedo molto, ma dò anche molto. E ogni due anni pretendo che se ne vadano altrove, perché solo in questo modo continuano a imparare. Il buono c’è, in tanti di loro, ma siamo noi a doverlo sostenere e incentivare».
Andrea Incerti Vezzani, del ristorante Cà Matilde di Quattro Castella (Re), sul tema ha una visione a 360 gradi perché, oltre a essere ristoratore, da 10 anni è anche insegnante. «Avere a che fare con i ragazzi - dice - non è facile, ancor meno quando si hanno solo 3 ore di pratica la settimana. Sappiamo tutti che è un problema di natura economica, ma questo rende più difficile trasmettere la passione per la professione. Se non si è capaci di creare un ambiente ideale è difficile farla emergere nei giovani. Lo stesso succede al ristorante: riuscirci sta alla capacità di ogni singolo cuoco e all’ambiente che ha saputo creare». E quando in questo ambiente si vive per molte ore al giorno, è facile comprendere l’importanza che tutto questo può avere. E non solo per un giovane commis.
Insomma, c’è molto di che approfondire e ancor più da fare, per garantire un futuro professionalizzante alle nuove generazioni. Per questo il presidente di Apci Roberto Carcangiu annuncia un prossimo passo dell’associazione: «Abbiamo bisogno di un modello nuovo di formazione, più evoluto e attento alle esigenze del mercato attuale. È fondamentale attualizzare le esigenze sia dei ragazzi che stanno entrando nel settore, sia dei ristoratori. Proprio per questa ragione a novembre ritorneremo sul tema, con un nuovo tavolo di lavoro a cui vorremmo fossero coinvolti ristoratori, chef e formatori. Da questo dibattito e dall’incrocio delle rispettive esigenze vorremmo che si riuscisse a delineare la figura del “commis 3.0”, un ragazzo che entrerà in cucina con una visione del lavoro e delle competenze diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati oggi».