Prodotti anonimi, dei quali non si conosce la provenienza, la tipologia di carne né i tagli utilizzati per la loro produzione. Insomma, prodotti da fast food, nel senso peggiore del termine. Sapore indistinto e incostante nel tempo, o peggio ancora costante ma non proprio accattivante, nessuna caratterizzazione, zero tipicità. Questo era il panorama degli hamburger fino a una decina di anni fa. Poi però le cose sono cambiate prima lentamente, poi sempre più velocemente. Sono nati locali che han fatto dell’hamburger il loro punto di forza. E, ancor prima, qualcuno ha capito che c’era un enorme vuoto in questo, piccolo per l’Italia, ma enorme nel mondo, segmento della ristorazione. Un segmento ben presidiato nella fascia bassa del mercato, ma totalmente scoperto in quella media e medio alta.
Tra chi allora ha capito, forse prima di altri, che una delle tendenze ristorative che negli anni a venire avrebbe reso protagonista proprio gli hamburger c’è la Ham di Napoli, fondata da Salvatore Russo, e nata su una precisa idea, semplice in teoria, un po’ meno nella realizzazione. Ovvero quella di ribaltare il concetto stesso dell’hamburger. Non più prodotto ottenuto dal recupero delle parti meno nobili dei vari tagli utilizzati nella ristorazione, ma una sorta di “nuovo taglio” che avesse la dignità e la qualità delle migliori portate di carne che si possono degustare nei ristoranti. Come mettere in pratica questa idea? Caratterizzando l’hamburger e dandogli una precisa connotazione in base al tipo di carne utilizzato per la sua produzione.
E non carni comuni, quanto Chianina, Black Angus, Fassona Piemontese e via dicendo. Ovviamente per ottenere la necessaria credibilità davanti al cliente non poteva bastare una mera “autodichiarazione”. Ed ecco così gli accordi con i consorzi in ottemperanza dei disciplinari ministeriali dei marchi di tutela come Igp che garantiscono la provenienza della Chianina o, ancora, dell’Usda, ovvero del dipartimento dell’agricoltura statunitense, per le carni della razza Black Angus. Non meno importanti le certificazioni qualitative “firmate” dai principali enti. Insomma trasparenza, ricerca delle migliori materie prime e attenzione alla filiera produttiva, oggi hanno portato a 16 tipi di hamburger (e tre di polpette), tra cui si trovano, in diverse pezzature, 11 tipologie delle carni delle migliori razze del mondo. Realizzati, per alcuni aspetti, in maniera “innovativa”. Per esempio la grana della carne viene mantenuta leggermente più grossa del normale, così da rendere una masticazione più piacevole e artigianale. Piccoli segreti, ma che fanno la differenza.