La pasta è uno dei simboli della cucina italiana. Nel secondo dopoguerra è stata la colonna portante della nostra alimentazione e ancora oggi il 99% degli italiani dice di amare la pasta (fonte Doxa/Aidepi), anche se ne mangiamo di meno rispetto a un tempo.
La pasta, però, non è un concetto immutabile. Come ha detto Massimo Bottura sul palcoscenico dell’ultimo World Pasta Day & Congress lo scorso ottobre a Milano, “sembra che la pasta stia evolvendo insieme a noi e cambi per adeguarsi a nuovi stili di vita, abitudini e gusti”. Tipologie, formati, tecniche di cottura alternative, tempi e modalità di consumo, porzioni e presentazione: molto è cambiato, sta cambiando e cambierà ancora in futuro.
Evoluzione e innovazioni sono più evidenti se si osserva quel che accade nell’alta ristorazione, dove solo negli ultimi anni gli chef hanno capito le potenzialità della pasta, specie quella secca, e oggi fanno a gara per valorizzarla. La pasta, ha detto Carlo Cracco durante il suo intervento a Identità di Pasta 2016, è “uno spazio libero dove ogni cuoco può fare quel che vuole, usando fantasia e libertà di espressione e pensiero”.
Da una quindicina di anni è in atto una rivalutazione del ruolo della pasta secca nella ristorazione gourmet. Dove, fino a poco tempo fa, era quasi d’obbligo specificare che tutta la pasta servita era “fresca” e “fatta in casa”. Nell’ultimo decennio del ‘900 alcuni pastifici hanno comiciato a far emergere la pasta secca dal rango di commodity, cioè un alimento di base poco differenziato e poco costoso, puntando a far conoscere al consumatore le caratteristiche che fanno la differenza in termini di qualità, per esempio la selezione di semole di grano duro di pregio e l’impiego di sistemi di lavorazione artigianali, come l’uso di trafile in bronzo e l’essiccazione lenta a bassa temperatura.
Il pacchero è stato il primo formato di pasta secca a conquistare gli chef e a diventare di moda, prima nei ristoranti top di mezza Italia poi, a cascata, ovunque. Oggi, nuovi formati vengono presentati ogni anno e antichi formati a diffusione regionale vengono rispolverati e rilanciati. La prossima frontiera potrebbe essere la pasta stampata in 3D; vedi caso, un paio di anni fa Barilla ha lanciato un concorso per creare nuovi formati ottenuti con la stampa 3D e ne ha presentati tre: boccioli di rosa, vortici e lune. Chissà se entreranno in produzione, intanto il seme è gettato.
Visto che la pasta è un alimento quotidiano, chi la ordina al ristorante si aspetta qualcosa di diverso rispetto a ciò che cucina a casa. «La difficoltà al ristorante è che non puoi fare una pasta normale e farla pagare 30 euro - sintetizza Carlo Cracco - ma se le preparazioni sono molto complesse poi si perde un po’ il gusto di mangiare la pasta». Difficoltà che si supera, a suo parere, facendo un piatto unico, con abbinamenti veramente buoni, e spiegandolo al cliente.
C’è anche un altro approccio: quello di ri-fare al meglio un piatto della tradizione. Come gli spaghetti al pomodoro, diventati un banco di prova degli chef più quotati. La tensione verso lo spaghetto perfetto comincia con la selezione delle migliori materie prime (la pasta, il pomodoro), il dosaggio al grammo del sale per l’acqua, il calcolo al secondo dei tempi di cottura, l’impiego di tecniche innovative come, per esempio, quella di cuocere la pasta nell’acqua di colatura del pomodoro.
Entriamo così nel grande capitolo delle tecniche di cottura. Quasi nessuno, ormai, si limita a buttare la pasta nell’acqua bollente, scolarla e condirla. Una delle prime innovazioni è stata quella di “risottare” la pasta, ovvero cuocere la pasta nel condimento, come un risotto, un’estensione della tecnica di rifinire per qualche minuto la pasta saltandola in padella. Una tecnica correlata è quella di cuocere la pasta in un’infusione. Nico Romito nel 2011 ha presentato i suoi capellini cotti nell’acqua di pomodoro e conditi in bianco con parmigiano grattugiato: in altre parole, il pomodoro c’è, si sente in bocca, ma non si vede. Le variazioni sul tema sono innumerevoli. Per esempio, Peppe Guida, dell’Antica Osteria Nonna Rosa di Vico Equense (Na), per la sua versione degli spaghetti al limone, piatto tradizionale della riviera sorrentina, macera delle bucce di limone in acqua calda per una notte. L’indomani, porta questa infusione a bollore in una padella e vi cuoce gli spaghetti, che poi condisce con olio e provolone.
Un’altra tecnica che ha fatto molto parlare di sé è la cosiddetta cottura passiva, propugnata tra gli altri da Elio Sironi, chef del Ceresio 7 di Milano. Si fa cuocere la pasta per pochissimi minuti dalla ripresa del bollore, poi si spegne la fiamma e si aspetta che il calore residuo finisca di cuocere la pasta. Due le caratteristiche di questa tecnica: primo, nell’acqua di cottura si disperdono meno amido e glutine; secondo, si risparmia energia.
Quello delle tecniche di cottura è un campo che lascia ancora molto spazio all’esplorazione. Come nel caso del pacchero stracotto di Alessandro Negrini e Fabio Pisani del ristorante Aimo e Nadia di Milano: cotto per 60 minuti in acqua. La pasta, grazie all’ottima qualità di partenza, conserva la sua forma, ma ha la consistenza di una crema e, dal punto di vista funzionale, può benissimo sostituire un puré in un secondo piatto. Proprio così è stato presentato a Identità di Pasta 2016, in abbinamento a uno stracotto di coda di bue grasso. Ancora più estrema la tecnica cui sta lavorando Cristina Bowerman dell’Hostaria Glass (Roma), che sta cercando di trovare il modo di servire la pasta cruda, utilizzando la tecnica della reidratazione degli amidi al posto di quella della gelificazione. La chef reidrata la pasta da 4 a 10 ore, a seconda del formato e poi la salta per un paio di minuti in padella, senza superare i 60°C. «Potrebbe rivelarsi una strada interessante - dice la Bowerman - per esempio per i crudisti. Le aziende potrebbero produrre paste adatte alla non cottura».
Un altro cambiamento in atto è una nuova percezione della pasta da parte degli chef, che sempre più la considerano un ingrediente, alla stregua di tutti gli altri, da manipolare, trasformare, usare. Davide Scabin, del Combal.Zero di Rivoli (To), è stato tra i primi a sdoganare la pasta secca nell’alta cucina e a sperimentare. Così l’ha cotta nella pentola a pressione, l’ha fritta. E poi l’ha scotta e frullata, ricavandone quello che lui chiama “pongo” e che usa variamente come ingrediente, per esempio lievitato e fritto nel bombolone di pasta nel 2015.
O, novità del 2016, come condimento per la… pasta. La pasta frullata e omogeneizzata, con i suoi amidi e i suoi profumi, diventa una salsa base per preparare tante salse derivate, spiega Scabin: sciolta in un’infusione di olio, aglio e peperoncino, per esempio; aggiungendo del pomodoro diventa un’arrabbiata. Ma le possibilità non si fermano qui e lo chef propone un pongo a base di spaghetti al nero di seppia come base per ottenere una granella con cui panare il pesce.