Siamo all’emergenza, com’è stato denunciato anche dal palco di Identità Golose. Abbiamo affrontato il tema coi professionisti più affermati, per identificare luci e ombre di una professione che rischia di sparire
Lo spunto per un tema di grande attualità nella ristorazione arriva da Identità Golose, il convegno dedicato all'alta cucina che si è tenuto a Milano ai primi di febbraio, dove si è tornati a parlare di sala.
La 10a edizione del congresso - che ha visto un'affluenza record di oltre 15mila persone a seguire le 80 lezioni dei 90 relatori italiani e stranieri - ha posto, in modo ancora più significativo rispetto allo scorso anno, l'accento sul fondamentale ruolo della sala nella vita del ristorante.
Ci ha pensato il tristellato Massimo Bottura a sottolineare questo fondamentale aspetto, citando il noto chef Michel Guérard e ricordando a tutti che: «Una cucina cattiva vale il 100 per cento dell'esperienza, una cucina buona ne vale il 48, perché il restante 52 è dato da altro». E guarda caso, in questo “altro” è proprio la sala a fare la differenza.
Maître, una figura produttiva
Si tratta di un aspetto che nel tempo abbiamo trattato più volte in queste pagine e che torniamo ad affrontare con i protagonisti e gli esperti del settore.
Fra questi Massimo Feruzzi, amministratore di Jfc, società di consulenza nell'ambito turistico-alberghiero, che sottolinea un aspetto ormai fin troppo evidente: «La tv ha innalzato l'immagine degli chef; per contro quella del maître è considerata una figura quasi obsoleta e il suo ruolo ha perso consistenza e valore. È considerato spesso un costo dell'organizzazione su cui fare economie e invece dovrebbe essere valutato come un'efficace unità produttiva, in grado di creare fatturato e immagine nel ristorante. La realtà è che si tratta di un problema sottovalutato, tanto che il servizio di sala è considerato come accessorio e non come un aspetto fondamentale nella vendita al ristorante. La situazione è già evidente negli istituti alberghieri, dove - complici i riflettori mediatici sul lavoro di cuoco - le richieste per le iscrizioni alla sezione “cucina” sono nettamente superiori rispetto a chi chiede di specializzarsi in “sala”».
Riqualificare la professione
La questione dell'appiattimento dei ruoli della brigata di sala non si pone per i ristoranti di fascia alta, dove si è ben consapevoli del compito del cameriere, dello chef de rang, del sommelier e del direttore di sala, ed è tenuto in alta considerazione chi sa spiegare e valorizzare un piatto e sa far crescere il business riuscendo a far stappare la bottiglia o consumare il piatto in più, per non parlare della capacità di accogliere e assistere l'ospite in ogni sua esigenza. Ma per la maggior parte della ristorazione tradizionale è ormai la sala è un vero punto dolente.
Ne è consapevole Beppe Palmieri, maître de La Francescana, che da tempo si batte per la riqualificazione delle professioni di sala e che è stato uno dei relatori di Identità golose proprio sul tema. Il suo impegno lo ha portato a fondare l'associazione “Noi di sala” (noidisala.com), che raggruppa molti fra i migliori professionisti di sala e cantina.
Gap fra cucina e sala
Durante il congresso milanese Palmieri ha avuto modo di raccontare problematiche e obiettivi della categoria. «Nel ristorante - dice - si è creato un vuoto enorme fra cucina e sala: la prima ha preso un grande slancio creativo e dinamico e i cuochi sono diventati personaggi tv; la sala è rimasta inchiodata al passato. Come categoria siamo trascurati e bloccati in questa situazione di stallo, anche per merito di sedicenti analisti di bilancio, che già una quindicina di anni fa avevano suggerito che era utile e possibile tagliare gli alti costi della voce “personale di sala”. Oggi il nostro gruppo, di cui fanno parte grandi professionisti come Alessandro Pipero e Marco Reitano, sta cercando di creare un dibattito, per far capire e valorizzare il nostro ruolo, così che non succeda più che i ristoratori dicano “non riusciamo a trovare bravi camerieri”, una cosa ormai frequentissima».
Personale formato o da formare?
Ma da cosa si parte? «Dal duro lavoro, inutile nasconderlo. Bisogna sapere che l'impegno richiesto è notevole e a volte c'è mancanza di umiltà o poca voglia d'impegnarsi e imparare da parte di alcuni giovani. Per fortuna non sono tutti così».
Palmieri sottolinea anche un altro aspetto, figlio forse della crisi o della voglia di trovare facili scorciatoie per risparmiare da parte dei gestori. «È ovvio che in questo, come in tutti i lavori, si cresce poco alla volta. Ma in questo Paese bisogna ricominciare a gratificare in termini economici le persone che sanno lavorare. Capita spesso che mi chiedano se conosco camerieri o sommelier in cerca di lavoro, ma sempre con la raccomandazione “mi raccomando, cerco giovani, da far crescere”. Qui sta il punto: i più preferiscono personale non formato per pagarlo il meno possibile. Questi per me non sono bravi imprenditori, perché non hanno capito il valore aggiunto che, a fronte di una piccola differenza in busta paga, un professionista è in grado di offrire».
Camerieri e cuochi, una squadra
Dal canto suo Marco Reitano (sommelier del tristellato La Pergola a Roma) dal palco dell'auditorium ha sottolineato: «Con la nostra professione noi facciamo molto di più che servire un piatto o consigliare un vino. Sappiamo regalare delle emozioni, fare in modo che il cliente possa trascorrere una serata indimenticabile, sappiamo costruire attorno al cliente un momento di piacere, e tutto questo funziona solo se esiste una grande sinergia con lo chef e la sua cucina. Il marketing della sala è un aspetto rilevante: a volte quando si apre un ristorante si cerca il migliore architetto, il bravissimo cuoco, ma si tende a sottovalutare l'importanza di noi che siamo in sala, non considerando che siamo noi a essere a contatto con i clienti, a conoscere le loro esigenze e problemi, diventando, quando siamo bravi, il vero punto di riferimento per gli ospiti».
Il bravo cameriere deve studiare la cucina
Alessandro Pipero - che sale sul palco dell'auditorium dove la platea lo applaude al grido di “siamo tutti camerieri!” - parla di se stesso e delle sue esperienze prima di diventare patron del Pipero al Rex (stella Michelin dal 2013) e sottolinea: «Non ho mai concepito una divisione fra cuoco e cameriere: hanno ruoli diversi, ma sono professionisti che giocano nella stessa squadra, quindi bisogna creare una sintonia, non rivalità. E aggiungo che - facendo un lavoro che prima di tutto ti deve piacere, perché richiede notevoli sacrifici - dopo aver finita la scuola alberghiera, ho affrontato lo studio delle lingue, ho fatto la necessaria gavetta e infine ho deciso di imparare qualcosa che quasi nessuno fa: studiare la cucina, l'accoglienza, la comunicazione, la gestione del personale».
Donne maître in sala, un'opzione per il futuro
Massimo Feruzzi tira le somme di questo spinoso argomento. «Il vero ruolo della sala non è ben compreso da molti patron. Inutile preparare il piatto più favoloso se non hai chi lo sa servire, presentare, vendere. E poi c'è la capacità di entrare in empatia con il cliente, saperlo accogliere e farlo sentire bene. Tutto questo diventa un valore vero per il ristorante, che consente d'incrementare il fatturato e avere una marginalità diversa. Scegliere personale non formato non è un risparmio, ma una mancata vendita: nei nostri studi statistici abbiamo calcolato che il lavoro di un professionista possa determinare una crescita di fatturato tra il 18 e il 20% annuo. Lancio anche una ipotesi provocatoria: per rivalutare la professione forse si dovranno portare al comando della sala le donne maître. La loro figura è l'unica che può contrapporsi positivamente alla “fine della specie” grazie a dolcezza, sorriso, professionalità. Una nuova figura che potrebbe rivoluzionare il sistema della ristorazione italiana».