Cominciamo dal sound. Il sostantivo femminile "cuoca" suona come un’occupazione modesta; si dice “è una cuoca bravissima!” e si pensa alla paciosa cuciniera di una famiglia benestante o alla cuoca della trattoria casalinga, o a quella del self service o della mensa aziendale. Si dice "è un cuoco bravissimo!” e si intende il grande lo chef.
Quanto al termine “chef” , è maschile indeclinabile e dovrebbe tornare buono per entrambi i generi, ma quando lo si sente preceduto dall’articolo femminile continua a provocare un micro sussulto linguistico: “la chef”, in fondo, suona come “lo chef” artificiosamente femminilizzato.
Intendiamoci, la donna è sempre stata per tutti la regina dei fornelli ma a patto che fossero quelli di casa sua o di un ristorante senza la minima speranza di stelle. Nessuno mette in dubbio la sua naturale vocazione a nutrire marito, prole e allegra brigata di amici. Ma una cosa è cuocere, un’altra è cucinare. E questa è faccenda da uomini. Da un lato c’è la vestale custode del focolare, dall’altro l’immagine marziale dell’eroico forgiatore di capolavori gastronomici. Da una parte una cucina ordinaria e concreta. Dall’altra, la fucina gastronomica del novello dio Vulcano.
A chi è ancora fermo a quel punto andrebbe ricordato che per la maggioranza delle madri di famiglia la creatività è un esercizio quotidiano, impegnate come sono a inventarsi piatti graditi a mariti gourmet e figli schizzinosi, a mettere d’accordo gusti disparati, a spremere la fantasia per approntare una tavola decente malgrado il budget. Tutte le cucine di sopravvivenza, da quelle di guerra a quelle dei periodi di recessione economica, sono state straordinari laboratori di ricerca gastronomica e palestre di creatività femminile, che non è né superiore né inferiore a quella maschile, è diversa: meno aggressiva e più prudente, meno ambiziosa e più pratica, meno urlata e più intimo-nostalgica. Insomma, più melodica che rock, ma non per questo meno geniale.
Si dice che le donne-chef tendano a fare una cucina troppo materno-tradizionale, ma non è forse questa la rampa di lancio ideale per tutti i decolli creativi? Nuova cucina e gastronomia domestica non devono mai essere scollate tra loro. Se succede, si consuma il tradimento dell’identità e del territorio, si trascura un patrimonio di immenso valore con risultati pateticamente impoveriti. La cucina delle mamme e l’alta cucina contemporanea non possono essere proiettate su due lontani pianeti, devono potersi riconoscere l’una nell’altra e scambiarsi quanto di buono entrambe abbiano da offrire.
La creatività non è l’unico punto di discriminazione. Un altro granitico luogo comune vuole che il governo di una brigata richieda autorevolezza, professionalità, creatività, forza fisica, tempo e resistenza alla fatica. Tutte qualità tipiche maschili!... O no? Questa storiella raccontatela a tutte le donne che ogni tanto partoriscono, ogni giorno vanno a lavorare, fanno la spesa, tengono i conti di casa, decidono le grandi spese della famiglia, cucinano, puliscono casa, aiutano i figli a fare i compiti e spesso badano ai genitori anziani. Anzi, è proprio questa molteplicità dei ruoli che costringe molte talentuose ad autoescludersi dalle alte sfere della ristorazione. Non è un caso che molte chef di successo siano single o senza figli. L’aut-aut “O ti fai una famiglia o ti fai una carriera” in questo lavoro è quasi legge.
Le donne vengono certamente arruolate nelle brigate di cucina. Ma è come nell’esercito: difficilmente diventano generali e quelle che ci riescono rimangono una minoranza. Il motivo? Gli uomini si prendono i posti migliori soprattutto in base al loro sesso, e poco importa se con questo sistema si tarpano le ali a chissà quanti talenti femminili.