C’è fermento in cucina: è il momento dei fermentati

fermentati
Usati nella cucina nordica, riscoperti dagli chef nostrani, i fermentati sono diventati di moda. Con pro e contro

Per anni, cuochi e ristoratori hanno ripetuto come un mantra la religione del fresco: solo ingredienti freschissimi, di stagione, a km zero, anzi coltivati nel proprio orto, raccolti un minuto prima di finire nel piatto, cotti con tecniche “dolci” per conservare integri sapori, proprietà organolettiche, valori nutrizionali... Insomma, fresco è bello e buono.

Poi, all’improvviso, è scoppiata la moda della fermentazione. Ed è diventato un vanto far notare come la carotina appena servita sia rimasta settimane o mesi a riposare in un vaso in compagnia di miliardi di batteri. Un dietrofront che può suonare come un voltafaccia. Oggi, dunque, la sperimentazione di alcuni chef d’avanguardia si concentra sull’applicazione di questo antico procedimento a materie prime come le verdure o la frutta. Con esiti di gusto sorprendenti. Ma quella delle verdure fermentate al ristorante è solo una moda, una ricerca del sapore ad effetto per stupire, o ci sono ragioni più profonde che spingono molti ad abbracciarla?

C’è da dire che un tempo la fermentazione era largamente usata, come spiega Daniela Cicioni, esperta di cucina vegana e crudista. «Ho scoperto da poco - rivela - che fino a 50-60 anni fa il concentrato di pomodoro si otteneva con un procedimento che comportava la fermentazione. Lo stesso per i crauti lattofermentati del Trentino. Oggi c’è un nuovo interesse: mi fa piacere che persone che magari non cucinano comincino a fermentare in casa. La fermentazione è un argomento che affascina e incuriosisce, è una specie di rituale di accudimento che non è solo cucina, ma è un modo di connettersi con la natura». Insomma, una specie di Tamagochi culinario.

«La fermentazione - prosegue Cicioni - fa parte delle buone pratiche che fanno stare bene. Dal punto di vista della cucina naturale, rientra nel bagaglio di conoscenze necessarie, è un’eredità storica di stili alimentari e di vita naturali, come quello ayurvedico. Però, non va dimenticato che è nata dalla necessità di conservare gli alimenti e solo in seguito si è scoperto che apporta benefici nutrizionali. Nel momento in cui la cucina gourmet riprende in mano certe pratiche tradizionali, viene naturale usare la fermentazione per produrre, per esempio, la classica giardienera di verdure, un tempo ottenuta per lattofermentazione di verdure in acqua e sale, senza aceto. Il risultato sono sapori completamente diversi rispetto ai sottaceti, con un’acidità più blanda. Cambiano i sapori delle verdure, che si portano dietro una serie di aromi». Quanto alla diffusione oggi della fermentazione nella cucina gourmet, «dipende sempre dalla singola persona: c’è chi si butta sulla fermentazione perché va di moda così, chi lo fa per curiosità, chi per l’interesse di approfondire, di valorizzare ed elaborare sperimentando con nuovi ingredienti».

Moreno Cedroni, chef Patron de La Madonnina del Pescatore di Senigallia (An), ha cominciato a sperimentare le fermentazioni tre anni fa, dopo un viaggio in Vietnam. «Mi sono innamorato dei loro pickles - racconta - che non sono sotto aceto ma fermentati così ho cominciato a fare tante prove». Qual è il valore aggiunto della fermentazione, nella sua cucina? «La componente fermentata è tridimensionale, in un ingrediente si ha contemporaneamente il salato, l’acido e il piccante. Se la usi bene, fa la differenza tra un piatto e l’altro, perché va ad arricchire un ingrediente che, a volte, può essere monotono, se il piatto ha un equilibrio gustativo costante. Il fermentato smuove il profilo gustativo, lo paragonerei al picco che si registra in un elettrocardiogramma, quando si prova un’emozione, provoca un “bip”. Nel nuovo menu della Madonnina del Pescatore, c’è un piatto che contiene ravanello fermentato che ha profumi incredibili».

Daniel Canzian, chef patron del ristorante Daniel di Milano: «Non sono contrario alla fermentazione in sé, condivido le scelte dei colleghi del Nord Europa, ma non la sento parte della nostra cultura - afferma -. In Italia abbiamo il mare e la montagna, le stagioni, una biodiversità unica al mondo. Altri territori, altre realtà hanno dovuto fare di necessità virtù, non avendo il nostro microclima e la nostra biodiversità. Le fermentazioni in termini nutrizionali e salutistici fanno bene, niente da obiettare, ma mi piacerebbe che i cuochi italiani si ricordassero di essere in Italia, la patria della dieta mediterranea, anziché studiare e promuovere tecniche legate ad altre nazioni meno fortunate. Non ne abbiamo bisogno. Questo non significa rinnegare culture e tecniche altrui, anzi, ben vengano se utili a dare quel quid in più alla nostra cucina. Ma se posso avere un prodotto freschissimo, che senso ha fermentarlo?».

«Non sono contro le fermentazioni - esordisce Riccardo Camanini, chef patron del ristorante Lido 84 di Gardone Riviera (Bs) -, ma la cucina che faccio deve piacere in primis a me. La fermentazione non rientra nelle mie corde, non ho mai messo nulla in menu con fermentati. Sono un cuoco da padelle, ho bisogno del contatto con la materia prima. La mia è una cucina fortemente italiana, i cui gusti si annidano nella nostra memoria. I fermentati li ho assaggiati al Noma, sono sempre aperto all’esperienza se mangio in altri ristoranti. Le fermentazioni offrono declinazioni interessanti, danno la possibilità di deviare, allungare e modificare il gusto. Ma trovo eccessivo quel tipo di acidità in più di uno o due piatti in un percorso di degustazione. Personalmente, ho bisogno di trovare rotondità nel gusto. Al Fäviken di Magnus Nilsson ho visto il suo processo di fermentazione, ma io preferisco sempre un asparago fresco, spadellato, dal bel gusto ferroso».

Foto in apertura: Pastinaca alla camomilla, gel di cavolo rosso, cialda essiccata di chia, caviale di aglio nero fermentato, piatto e foto di Daniela Cicioni 

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