Stappo tutto. È il motto di una vita. Quella di Mauro Lorenzon, il folletto del vino che, partito dalla terraferma - a Jesolo tra il 1974 e il 2002 è stato prima alla Trattoria Tre Volpine Cantine da Ciccio e poi a La Caneva -, è approdato a Venezia per non lasciarla più. Molti lo hanno incrociato alla Mascareta fino a quando un doppio ko, prima l’acqua alta nel 2019, poi il Covid, lo ha costretto alla chiusura.
Ma Lorenzon non si è dato per vinto ed è ripartito: ha comprato i muri di un’antica osteria, Vini da Memi, ai piedi del Ponte de la Tana in sestiere Castello, e aprirà - a metà maggio - il suo nuovo locale. L’obiettivo è sempre lo stesso: farne un luogo che “se entri da ateo del vino, ne esci credente”.
A 65 anni, un nuovo locale...
Come La Caneva e La Mascareta, sarà un’enoiteca, termine che ho inventato nel ’90 con la benedizione di Luigi Veronelli. Il decalogo di un’enoiteca impone di stappare qualsiasi bottiglia, anche per un solo calice. E di privilegiare i produttori da viticoltura diretta di vini padronali, che devono coprire almeno il 70% della carta. Perché, come diceva Veronelli, “è meglio il peggior vino del contadino che il miglior vino dell’industria". Anche se i vini dell’industria non sono tutti cattivi, e a volte sono più autentici dei finti artigiani.
Piccoli produttori, meglio se bio o biodinamici?
Va bene il biologico, il biodinamico o il naturale, purché sia buono. Oggi sono in una posizione ancora diversa, che sintetizzo con lo slogan “buono oltre il gusto". Alle cantine dico: producete vino nel rispetto del territorio, con uve sane, con la minor manipolazione possibile. Ma se servono i solfiti, metteteli. È importante che si faccia il vino con dignità, coscienza e genuinità.
Nei tuoi locali non hai mai fatto la carta dei vini. Sarà così anche nella nuova enoiteca?
Dopo 40 anni, ho imparato la lezione. Questa volta la farò, perché la mia fregatura commerciale è stata comprare tutto di tutti, facendo immensi magazzini. In quest’ottica, ben vengano anche i distributori, che ti danno sei bottiglie per tipo. Quindi passione, senza perdere di vista l’economia. Per funzionare, bisogna essere accorti economicamente e poetici sul servizio e sull’approccio.
Come sarà, dunque, questa carta?
Bella, anche graficamente. Ampia, spaziosa. “Rallegratela con tante bottiglie, queste ritte, quelle coricate, da considerare con occhio amico nelle sere di primavera, estate, autunno e inverno sogghignando al pensiero di quell’uomo senza canti e senza suoni, senza donne e senza vino, che dovrebbe vivere una decina d’anni più di voi”. Questa è una poesia di Giacomo Bologna, un mio maestro, uno di quelli che mi ha trasformato in oste.
Come si fa, allora, una carta dei vini originale?
La carta dei vini, come il menu, la deve fare il ristoratore e non una guida, un giornalista, o un distributore. Chi non seleziona il vino e non va al mercato a scegliere la carne e il pesce, non è un collega, ma un mestierante.
Che territori privilegerai? Ci sono nuovi terroir italiani da esplorare?
Non c’è territorio che io scarti. Però dove gli etruschi mettevano pannocchie, devono esserci pannocchie, non vigneti. La vite dappertutto non va bene. Piuttosto, attenzione ai cambiamenti climatici. Un’azienda oggi non deve più impiantare i vitigni con esposizione a Sud est, ma a Nord est, per evitare l’insolazione. In Spagna sono anni che lo hanno capito. E impariamo dai francesi, che fanno il Cabernet a Bordeaux e non in Borgogna, il Pinot Noir in Borgogna e non a Bordeaux.
Di certo, in Veneto, non può mancare il Prosecco?
Attenti, la bolla potrebbe scoppiare. Perché i grandi numeri ci sono, ma se si trova a scaffale a 1,50 euro qualcosa non torna. Ai produttori dico di rifermentare un Prosecco fermo che fa 12 gradi, anziché rifermentare un vino base vendemmiato ad agosto che fa 9 gradi. Vendemmiate non a fine agosto, ma a metà settembre, accontentandovi di 80 quintali l’ettaro, così avrete più sostanza.
Quale cibo accompagnerà il vino?
Io amo la cucina di prodotto, la materia prima manipolata il meno possibile. Ma anche le ricette della tradizione, fatte bene. Servono più cuochi e meno impiattatori. Gente capace di sfilettare un pesce. O di cucinare una trippa alla parmigiana o un baccalà mantecato.
Stai per aprire un’’ombra. Ma si può essere identitari a Venezia?
Una vera ombra veneziana deve essere sincera, trasparente, legata alla tradizione, con tutte le varianti stagionali. Nel futuro vedo il ritorno alle osterie. L’osteria ce la farà su tutto, assieme alle stelle. E poi, chi si fida ancora della Michelin che è stata acquisita da Tripadvisor?
Torniamo al vino, di cui sei anche produttore, oggi.
Seguendo gli insegnamenti di Giorgio Grai, sono diventato un “négosian di vin bon”. Vado dai contadini, scelgo le giuste partite di uve, le vinifico in cantine fidate che lavorano conto terzi. Oggi il mio metodo si chiama “Criterio", che prevede fermentazioni spontanee, con lieviti propri e senza solfiti aggiunti. Produco così un Tocai italico che chiamo “Profondo Italico”, un Pinot grigio macerato dal nome “Pi.Not.Che.Si” (tradotto dal veneto: più no che sì), il prosecco Sclera da uve Tondo e Perera, il Dorona con le omonime uve che prendo dai contadini della Laguna, e poi, in collaborazione con la cantina Casa Roma, un Raboso, il Rabbioso Domato e il Promesso Manzoni, ovviamente un Incrocio Manzoni 6.0.13. E sono vini da tavola: un termine che mi piace, perché il vino deve essere sempre da tavola.