Allevare una serpe in seno è l’incubo di ogni ristoratore. In questo caso, non si parla di dipendenti fedifraghi, ma di piatti in menu. «Molti menu dei ristoranti - afferma Lorenzo Ferrari, ideatore del metodo Menuengine - contengono piatti che vanno contro gli interessi del titolare. Solo che lui non lo sa». Per questo Ferrari ha ideato un metodo per aiutare i ristoratori a scoprire come trasformare il menu in un’arma di moltiplicazione del business. Ribaltando alcune delle logiche “trappola” in cui cadono molti titolari. La prima: darsi come obiettivo quello di alzare lo scontrino medio (molto meglio puntare ad aumentare la propria marginalità a parità di spesa per il cliente). La seconda: pensare che per far crescere i profitti occorra ridurre i costi (anziché concentrarsi sulla vendita dei piatti più profittevoli).
Da qui l’idea: realizzare il menu perfetto - cioè il menu che fa aumentare i profitti del ristorante - in quattro mosse.
«Il punto di partenza è l’analisi del food cost - spiega Ferrari -, elemento cruciale cui non sempre si dà la dovuta attenzione. Eppure pesa circa il 30% dei costi di un ristorante. Per ogni piatto in menu, oltre al suo esatto food cost, vanno indicati il tempo di preparazione, il prezzo in carta e la quantità di piatti venduti».
Il risultato è un preziosissimo foglio Excel che permette di “fare le pulci” alla propria offerta. «Ogni piatto va classificato in base a tre elementi: maggiore o minore profittabilità, la popolarità (se vende tanto o poco) e il tempo di preparazione, veloce o lungo - continua Ferrari -. Questi dati ci permettono di creare un cubo magico (vedi illustrazione a sinistra, ndr) all’interno del quale inserire i diversi piatti. Il risultato finale sono quattro coppie: le serpi in seno, complicati da preparare e poco profittevoli, quindi da eliminare. Gli ami da pesca, popolari ma poco profittevoli. Le stelle, popolari, profittevoli e facili da preparare: sono quelli su cui puntare. Infine i dilemmi: profittevoli ma poco richiesti dai clienti.
Il menu ideale dovrebbe contenere soltanto stelle, ma è più realistico puntare a un 70% di stelle, il 20% di ami da pesca e il 10% di dilemmi. Nel dubbio, sempre meglio privilegiare i piatti che hanno i tempi di preparazione più ridotti». Naturalmente l’alta cucina può, più di altri, in qualche modo derogare a queste regole. Che restano preziose per chiunque voglia aumentare i propri profitti.
Ferrari suggerisce altre regole d’oro: menu contenuti e descrizioni chiare: «I menu sterminati generano casualità nella scelta - spiega -. Il nostro suggerimento è di usare il sette come numero magico: sette primi, sette secondi ecc. Comunque un numero dispari di proposte per tipologia di piatto. E sempre non superiore a sette». Attenzione ai nomi dei piatti: «Gli errori più comuni? I nomi “creativoni2, che nessuno capisce; le “liste della spesa”, un piatto elenco di ingredienti che abbassa la percezione della qualità del piatto; le “cartine geografiche”, in cui ci si dilunga sulla provenienza degli ingredienti. L’ideale? Nomi essenziali, ma soprattutto “parlanti”: devono essere facili da capire per il cliente, meglio ancora se sono anche interessanti e utili».
La parte più importante di questo lavoro di menu engineering resta sempre quella finale: la misurazione dei risultati. «Senza misurazione non si può sapere se si sta andando meglio o peggio - sottolinea Ferrari -. Non sempre un menu così concepito ottiene i risultati sperati in termini di incremento della marginalità. Ma se non li ottiene, non va sprecata l’occasione di scoprire il perché. Potremmo ad esempio scoprire che il personale non è sufficientemente formato a indirizzare le scelte dei clienti verso i piatti “stella”. Analizzare consente di scoprire le ragioni di un andamento diverso dalle attese e di aggiustare il tiro».