Non ci sono solo i celiaci già diagnosticati e censiti, che peraltro aumentano a doppia cifre ogni anno (in Italia siamo arrivati a 170mila, ma si stima che gli intolleranti al glutine siano almeno 600mila). Chi mangia senza glutine, mettendo insieme celiaci, persone affette da “gluten sensitivity” e chi sceglie di eliminare dalla propria dieta il glutine per scelta (per moda, perché lo ritiene più salutare, o per perdere peso), in Italia è il 9% della popolazione, pari a 5,4 milioni di persone, di cui sette su dieci donne. In altri Paesi, come la Germania e la Spagna, la percentuale è inferiore ma comunque elevata (7%), mentre in Francia si ferma al 6%.
Numeri che certificano la rilevanza del mercato “senza glutine”, tanto da convincere Ica Italia - il network che raggruppa imprenditori, manager e consulenti delle aziende del Foodservice italiano - a dedicare al gluten free un’intera mattinata di analisi e approfondimenti nell’ambito dell’ultimo Food Service Network Meeting andato in scena all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Cn).
I dati presentati al meeting Ica dicono alcune cose importanti. Primo: le dimensioni del fenomeno sono molto maggiori di quel che si pensa, visto che la stima più prudenziale parla di tre milioni di italiani che si alimentano senza glutine (ma il numero su cui molte analisi convergono è di 5,4 milioni, appunto).
Secondo: il fenomeno è destinato, con tutta probabilità, ad aumentare, sotto la spinta dell’incremento delle diagnosi di celiachia ma, soprattutto, del numero di persone che scelgono di mangiare senza glutine perché lo ritengono più salutare. Negli Stati Uniti il fenomeno è molto evidente: negli ultimi tre anni la percentuale di maggiorenni che ha scelto di ridurre o eliminare il glutine è passato dal 25,5 al 28%. E un cliente su quattro cerca ristoranti che offrano menu senza glutine o piatti studiati per gli allergici.
In Italia i produttori se ne sono già accorti: secondo il Gluten Free Outlook, indagine realizzata da Grs per conto di Gluten Free Expo intervistando 206 aziende produttrici di alimenti senza glutine, il 73% dei produttori pensa che il mercato nei prossimi tre anni è destinato a crescere. L’ottimismo non è infondato: il 69% di loro ha aumentato il fatturato nel 2015 (di queste, il 15% ha registrato un incremento di oltre il 25%), mentre estendendo l’analisi all’ultimo triennio quelle che hanno registrato un incremento del giro d’affari sono il 63% (il 21% delle quali superiore al 25%). A confermarlo, durante l’Ica Meeting, è stata Giovanna Pesce, ad di Forneria Veneziana: «Il senza glutine non è più una nicchia di mercato riservata ai celiaci.
I nuovi trend alimentari e l’aumento delle persone attente a un’alimentazione sana e salutare hanno allargato molto il bacino d’utenza e spinto le aziende produttrici più attente a investire per migliorare la qualità e il gusto dei prodotti senza glutine. La sfida non è facile: «Il glutine - continua Pesce - è un additivo pressoché onnipresente per la sua capacità di aumentare masticabilità e consistenza del cibo. Occorre sostituirlo con altri elementi che permettano all’impasto di tenersi, senza allontanarsi dalla consistenza e dal gusto dei prodotti con glutine. Un obiettivo che richiede un significativo investimento in ricerca: occorre affinare le ricette utilizzando ingredienti di qualità e dosandoli ad arte».
Nella ristorazione fuori casa gli spazi per chi vuole allestire una proposta senza glutine non mancano: il team di esperti intervenuto al meeting Ica ha calcolato (prudenzialmente) in 120 milioni di pasti il potenziale mercato. Senza contare l’indotto. «Parliamo di cinque milioni di persone, che mangiano fuori casa in media due volte al mese - spiega Simonetta Nepi, presidente dell’associazione Gluten Free Travel&Living -. Senza contare almeno una persona che li accompagna. Quando in un gruppo c’è un celiaco, è lui a decidere il locale per tutti».
Il punto di partenza è la formazione: il personale di sala e di cucina devono almeno sapere cos’è la celiachia, quali sono gli ingredienti che contengono glutine, cos’è la contaminazione crociata: sia per non incorrere in errori pericolosi, sia per dare il massimo supporto al cliente celiaco.
Ma anche la comunicazione riveste un ruolo chiave: «Il menu deve essere molto chiaro - afferma Michele Fino, professore di Fondamenti del Diritto Europeo nell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo -: l’ideale è indicare, piatto per piatto, gli allergeni contenuti e se sono “adatti ai celiaci”. Mettere l’elenco degli allergeni in fondo al menu e la dicitura “chiedete al cameriere” obbliga i clienti a dover esporre pubblicamente i propri eventuali problemi di salute. E non è affatto detto che lo voglia fare. Perché metterli a disagio?».