Selfbrand, investire su se stessi fa bene al locale

Una reputazione "forte" del ristoratore o dello chef potenzia il brand dell'azienda. Anche i collaboratori devono contribuire comunicando bene la propria immagine

Tra il concetto di brand e quello di marchio spesso si fa confusione. Il brand ha a che fare con i valori intangibili che formano la reputazione di un’azienda e con l’immagine che impatta nella mente di chi acquista un prodotto o un servizio. In estrema sintesi, riguarda il valore “percepito” dai consumatori. Si tratta di una verità cui non sfugge il mondo della ristorazione: «Molti pensano che basti possedere un bel logo e il successo del brand è assicurato, invece si tratta di un processo molto più strutturato» spiega Donatella Rampado, consulente di marketing e formazione e fondatrice di Arc Consulting.

Secondo l’esperta, per un ristorante esistono quattro livelli di posizionamento del brand. Il primo si verifica quando, decidendo di mangiare fuori casa, un consumatore identifica con sicurezza un locale. Se, invece, si pone la scelta tra una ristretta rosa di nomi, siamo al secondo livello e la concorrenza si fa strada. Qui entrano in gioco altri elementi valoriali, quali la qualità della cucina (ovviamente), oppure la presenza di un parcheggio. Se, al contrario, non scatta subito l’idea, parte la ricerca e ciò che conta è il posizionamento sul Web: siamo al terzo livello. Nel quarto, il locale non fa capolino nemmeno da Internet: in pratica, non esiste. Innanzi tutto, è fondamentale capire a quale stadio si trova il brand del proprio locale. Una volta fatto questo, come si può influire sul posizionamento? Qui entra in gioco il “Selfbrand”. «Il Selfbrand è importante in Italia, perché i ristoranti sono prevalentemente a conduzione familiare e non si può contare sulla potenza del marchio di una grande catena - osserva Rampado -. Se il brand del proprietario o dello chef (che spesso coincidono) è forte, si rafforza anche il brand del locale. Ottenere questo risultato non è un caso, servono metodi di comunicazione trasparenti e congrui».

Anche il Selfbrand, come il brand, ha le proprie fasi che corrispondono ai momenti di vita di un’impresa. Esiste una fase di startup, dove si deve superare la “non esistenza” e conquistare visibilità. Il brand del locale è alle posizioni tre e quattro viste in precedenza. Poi c’è il consolidamento: il ristoratore ha buona visibilità e comunica bene ciò che fa (sui media, sui social), ma è simile ad altri, non ha una reputazione che lo ponga in vantaggio. Allora si deve lavorare per distinguersi. La terza fase si chiama power Selfbrand: è apparentemente la più semplice, l’approdo al successo è cosa fatta e la personalità del proprietario è “universalmente” nota. In realtà, però, si tratta della fase più pericolosa perché, con la visibilità, crescono i rischi di attacco.
«Il power Selfbrand è un momento magico - osserva Rampado -, ma bisogna saperlo mantenere, non dando per scontato nessun elemento che concorre alla qualità: per esempio, rafforzando la disciplina in sala e in cucina». La costruzione e il mantenimento del brand personale, difatti, non sono solo affare del ristoratore. «Le persone apicali sono le prime a dover lavorare nella costruzione del Selfbrand, ma anche i collaboratori sono coinvolti - conclude Rampado -. Quelli che sono in grado di “vivere” l’azienda e la sanno comunicare (i cosiddetti appartenenti), devono costruire una propria immagine in linea con quella del locale, creando un proprio Selfbrand. È quindi necessario formarli, oltre che sulle competenze tecniche, sulla comunicazione, sulla capacità di osservazione e ascolto e sull’immagine, dalla pulizia personale al sorriso».

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