Ormai la generica cucina cinese proposta in locali dozzinali e poco curati sta lasciando il posto ai ristoranti che puntano su cucine territoriali (tra cui Canton, Sichuan, Wenzhou) preparate secondi i criteri del fine dining. E la clientela apprezza
La cucina cinese in Italia ha superato da poco i settant’anni di vita. Era infatti il 1949 quando a Roma, in via Borgognona, apriva Shanghai, il primo ristorante cinese nel nostro Paese, pensato per le comunità migranti originarie dello Zhejiang. Bisognerà aspettare però gli anni ’60 per assistere al fenomeno dell’apertura dei ristoranti cinesi rivolti al pubblico italiano nelle grandi città; un trend che parte da Milano - con l’inaugurazione de La Pagoda, in via Fabio Filzi, nel 1962 - e vede il boom nei decenni successivi, fino ad arrivare ai profondi cambiamenti di tutto il settore della ristorazione cinese, iniziati con il nuovo millennio, che continuano inarrestabili.
I primi ristoranti
Aperti da migranti con gli occhi a mandorla che faticavano a inserirsi nei tradizionali settori della pelletteria e del tessile, ormai saturi, i primi ristoranti cinesi erano gestiti da persone spesso inesperte, che si erano formate sul campo, affiancando i rari cuochi professionisti che arrivavano principalmente dalla Provincia dello Zhejiang, e più raramente da Fujian, Jiangxi o Hong Kong, per istruirli.
Nel corso degli anni i saperi di quei cuochi sono passati di mano in mano. Succedeva così che un commis o un semplice lavapiatti, osservando il cuoco ufficiale in azione o aiutandolo ai fornelli nei momenti di maggior difficoltà in cucina, imparava le tecniche e le ricette e alla fine gli “rubava” il mestiere, per quanto gli era possibile, per diventare ben presto egli stesso un alter-ego del cuoco titolare.
Piatti addomesticati
Questa modalità di trasmissione della professione, oltre all’assenza di scuole di cucina cinese in Italia, hanno favorito la diffusione di piatti che nel corso del tempo si sono molto addomesticati, anche per conquistare i favori del pubblico italiano; al tempo stesso però si sono perse buona parte delle ricette originali e tradizionali cinesi.
Oltre alla carenza di cuochi professionisti occorre poi sottolineare che l’assenza di buona parte di quei prodotti e ingredienti - freschi e non - che caratterizzano le diverse cucine regionali della grande Cina, ha limitato sensibilmente il numero di piatti replicabili in Italia. Questi fattori, insieme alla messa al bando degli ingredienti vietati dalla nostra legislazione (oltre a quelli opportunamente “censurati” per via dei diversi tabù alimentari) hanno di fatto contribuito alla diffusione di una cucina che potremmo definire sino-italiana, più che autenticamente cinese. Per fortuna non sono mancate le eccezioni, pensiamo a quella manciata di ristoranti che hanno cercato di distinguersi per l’originalità dei loro piatti e menu, la qualità della cucina e del servizio come l’Hong Kong, il Lon Fon o il Giardino di Giada a Milano, l’Hang Zhou da Sonia a Roma, La Via della Seta di Yu Xuzuan a Torino.
Formula banalizzata
A fronte della crisi che ha interessato il settore della ristorazione cinese, all’alba del nuovo millennio molti locali hanno chiuso. La formula banalizzata che prevedeva riso alla cantonese, involtino primavera, pollo con mandorle e una manciata di pochi altri piatti aveva saturato il mercato. Così diversi ristoratori cinesi, di fronte al successo emergente della cucina giapponese, hanno iniziato a convertirsi alla triade sushi, sashimi e tempura, mentre altri si sono cimentati in quella fusion-confusion, per sfociare entrambi in tempi più recenti nelle formule all you can eat.
Expo 2015, la ripartenza
Per iniziare a vedere qualcosa di diverso bisognerà attendere Expo Milano 2015. In realtà, fin dai primi anni del 2000 nelle chinatown di Prato e Milano hanno cominciato ad aprire le prime “trattorie cinesi”, piccoli locali frequentati dalle comunità migranti dello Zhejiang che proponevano i grandi classici della cucina di Wenzhou, come il silken tofu con le uova di cent’anni, piuttosto che le lingue laccate d’anatra.
Ma la vera rivoluzione è dalla chinatown meneghina, quando il giovane imprenditore Agié Hujian Zhou ha deciso di aprire la Ravioleria Sarpi. L’idea era semplice ma geniale; si trattava di mettere in valore il filone delle “piccole colazioni” o xiaochi, ovvero lo street food cinese - fatto di ravioli jiaozi o guotie, di crêpes jianbing, “tigelle” roujiamo - in parte adattato al gusto italiano e realizzato con prodotti di qualità di aziende agricole italiane di pregio. Il successo di questo nuovo concetto di cucina cinese è sotto gli occhi di tutti e nel giro di pochi anni l’intera via Sarpi si è convertita a questa formula di cibo da passeggio.
Cucine regionali
La seconda grande intuizione di Agié è stata quella di valorizzare le grandi cucine regionali cinesi, a cominciare da quella di Sichuan, con l’apertura de Le Nove Scodelle.
Oggi si stanno moltiplicando i locali dedicati ad alcuni piatti iconici cinesi come l’hot pot o i pulled noodles, piuttosto che alle diverse cucine regionali cinesi. E questo è un bene.
La sensazione è che le seconde generazioni non conoscano i sapori delle loro cucine native e che siano tentate da un lato dalla banalizzazione o contaminazione fusion delle ricette, dall’altro dalla scarsa attenzione alla qualità delle materie prime. La strada da fare è ancora lunga, ma intanto s’è incominciato.
1Tra street food e cucina regionale
Le Nove Scodelle e Ravioleria Sarpi, Milano
www.lenovescodelle.com
A volte per affrontare in modo innovativo e vincente una situazione stagnante occorre guardarla con occhi diversi e da un altro punto di vista, afferma convinto Agié Hujian Zhou. Per gli amici lui è semplicemente Agié, non un professionista della ristorazione mandarina, ma una mente creativa e un project manager. «Ero stanco di vedere che i miei connazionali si limitavano a proporre una cucina simil cinese di bassa qualità o che aprivano locali di cucina simil giapponese...», mi racconta e prosegue. «Decido così di mettere insieme alcuni soci e collaboratori e di partire per la Cina per approfondire la conoscenza della cucina delle mie radici, da quella di strada a quelle delle diverse regioni».
Agié tornerà con l’idea giusta: puntare su ricette autentiche, innovative, elaborate con materie prime di qualità made in Italy, adattate ai gusti degli italiani. Nascono così La Ravioleria Sarpi e Le Nove Scodelle, regno della cucina del Sichuan; due diversi concetti di ristorazione cinese innovativa che hanno fatto scuola a livello nazionale.
2Proposte creative e contemporanee
Ristorante Lin, Roma
www.ristorante-lin.it
Il ristorante di Xiangyu Lin si trova all’incrocio tra Viale Regina Margherita e Piazza Buenos Aires e per l’allestimento sobrio e minimal potremmo considerarlo una trattoria cinese contemporanea. Il locale prende il nome dallo chef Lin che, caso raro nel panorama della ristorazione cinese in Italia, ha fatto una scelta controtendenza.
«Decido personalmente e perfeziono i piatti del mio menu, che spaziano dai classici della cucina cinese Sudorientale a portate più innovative e creative, ma in cucina non ho un solo dipendente cinese!». Se gli chiediamoil motivo, risponde con un sorriso: «Ero stanco di riprendere continuamente i miei cuochi, che tendevano a non mantenere lo standard qualitativo che pretendo. Anche sull’ordine e la gestione della cucina c’era sempre da discutere...».
Da Lin il pubblico va per i suoi ravioli, preparati minuziosamente a mano da personale del subcontinente indiano, ma ciò che ci ha convinto di più è stata lazuppa agro-piccante di gamberetti, tofu, shiitake, uova, germogli di bambù, cipollotto, peperoncino e la pancetta di maiale stufata con vino di riso, miele, anice stellato, cannella, con riso bianco.
3La vera e raffinata tradizione cantonese
Hekfan Restaurant, Milano
Su FB @hekfan_restaurant
La recente apertura del ristorante Hekfan a Milano segna un altro passo in avanti a favore dell’autentico fine dining cantonese.
«Abbiamo affidato al talento di Cheung Kin Yan, giovane chef pluridecorato di Hong Kong, il compito di orchestrare un menu che spazia dai dim sum ai clay pot, in grado di rappresentare in modo fedele la raffinatezza della cucina dell’Isola dei Nove Draghi - dice Eric F&B manager del nuovo concept restaurant dell’Hekfanchai Group -. In Italia non si conosce la cucina di Hong Kong, che dagli amanti di chinese food è considerata la più varia e raffinata di tutta la Cina. Basti pensare che un noto proverbio mandarino recita: “I migliori cuochi cinesi sono quelli di Canton, ma i migliori cuochi di Canton sono tutti di Hong Kong!”.
Se volete farvi un’idea dei veri dim sum, venite a provare la selezione di dumplings di Hekfan: si spazia dai ravioli di cristallo har gow ai gamberi, agli autentici shāomài, dai xiaolongbao ripieni di brodo, ai panini a vapore char siu farciti di carni laccate». Avevamo conosciuto lo chef Cheung Kin Yan ai fuochi del ristorante Element di Firenze, ma Milano è la piazza ideale per esprimere questo genere di cucina.
4Materie prime a km 0
Ristorante Dao, Roma
www.daorestaurant.it
Jianguo Shu è il patron di questo ristorante raffinato e confortevole che ha saputo finalmente bilanciare il lavoro degli interior designer con quello dello staff di cucina e del servizio in sala. «In cucina ho voluto uno chef cinese professionista di grande esperienza, per essere certo di potermi distinguere da tutti gli altri locali della città - mi racconta il signor Shu -. Questo ha significato per me fare un grosso investimento, e anche in questi anni difficili, con la pandemia, non ho mai voluto rinunciare alla qualità. Non è quindi un caso se oltre a molti vip della Capitale, le più importanti autorità e delegazioni dell’Ambasciata Cinese in Italia vengono da noi per godere dei piatti dello chef Zhu Guangqiang».
Da Dao i dim sum sono davvero molto buoni, così come i ravioli jiaozi. Da non perdere tre dei piatti bandiera dello chef: la pancetta di maiale brasata, gli spaghetti di riso cha sha rou, l’arista di maiale yuxiang rou si. Il segreto del successo di Dao? «Grande attenzione nella selezione delle materie prime, che acquistiamo il più possibile da piccoli produttori locali, passione e professionalità, per ogni aspetto del nostro lavoro», risponde orgoglioso Mr. Shu.
5Mix di cucine in formato Slow Food
Ristorante Zheng Yang, Torino
www.ristorantezhengyang.com
Silvia, Piero e Paola Ling hanno ereditato dal padre la professione di ristoratori cinesi, ma quando hanno aperto il loro nuovo ristorante hanno voluto cambiare tante cose.
«La cucina cinese a Torino era appiattita su uno standard qualitativo di basso profilo - ricorda Silvia Ling -. Da quando ho preso in mano io la cucina, insieme a mio fratello Piero, ci siamo avvicinati alla filosofia di Carlin Petrini, entrando a far parte dell’Alleanza dei Cuochi di Slow Food. Oltre a realizzare con i migliori prodotti alcuni dei piatti cinesi ai quali si sono abituati gli italiani, abbiamo iniziato a farne dei nuovi, inserendo ingredienti insoliti, come i fagioli neri fermentati e diverse varietà di verdure e funghi orientali, che oggi alcune aziende agricole, spesso biologiche, coltivano in Piemonte», mi racconta, fiera del suo lavoro.
E conclude: «Ultimamente ci piace giocare con le identità e con i sapori. Ho trascorso in Italia gran parte della mia vita e pur essendo cinese d’origine, mi piace creare piatti che mettono in relazione i prodotti italiani e piemontesi con quelli cinesi, miscelando sapori e tecniche di cottura molto diversi tra loro».
Ormai la generica cucina cinese proposta in locali dozzinali e poco curati sta lasciando il posto ai ristoranti che puntano su cucine territoriali (tra cui Canton, Sichuan, Wenzhou) preparate secondi i criteri del fine dining. E la clientela apprezza