Equilibrio tra eleganza e semplicità. «È ciò a cui punto, sempre. Nel piatto ciascun ingrediente deve poter esprimere il meglio di sé e farsi percepire in armonia con l’insieme. Se dal 1965 siamo arrivati sino ad oggi, credo sia proprio per questo: proposte di livello, realizzate in modo genuino con prodotti a larga maggioranza del territorio. Penso che il segreto sia quello di rendere attuale la grande cucina italiana, portandola ai nostri giorni e facendole avere un’altra vita. Il mio intento è questo, lasciarne il sapore intatto, se non addirittura migliore, e renderla ancora più salutare».
Così si racconta Danilo Bei, lo chef quarantaseienne del Ristorante Emilio di Fermo, una stella Michelin dal 2003, presa che lui era appena trentenne.
E se oggi, alle cinque di ogni mattino, è sempre Danilo ad andare a rifornirsi di fresco ai mercati, per il pesce quello di San Benedetto, per le verdure Porto San Giorgio, a pulire le materie prime in cucina c’è ancora Emilio, suo padre, 80 anni lui e altrettanti la moglie Milvia, che questo ristorante aprirono nell’ormai lontano 1963.
Attualmente il ristorante conta una trentina di posti a sedere, in inverno apparecchiati nella sala interna di 80 metri quadrati su una pianta complessiva da 250 mq e in estate accomodati in terrazza (e in estate i coperti non raddoppiano per far cassa). Al servizio dei clienti, gli altri due figli: Roberto, classe 1965, e Osvaldo, classe 1963, sommelier che negli abbinamenti ama giocar di sponda: «Preferisco che al centro del pasto rimanga la portata, per questo consiglio spesso, soprattutto a inizio pranzo, vini leggeri che non coprano la scena». In carta circa 150 etichette: in prevalenza bianchi per tipologia e marchigiani per territorio, vigneto principe il Verdicchio, bianco per antonomasia di queste terre; pochi gli esteri, Champagne soprattutto. Tante bottiglie vengono direttamente dalle cantine le altre arrivano da attraverso distributori di fiducia. Modesto e meticoloso, quanto lo chef, Osvaldo ha passione ed estro e una luce viva negli occhi mentre chiede riscontro al cliente, suo ultimo giudice, ad esempio sul gradimento dei ravioli, 70% ripieno di prezzemolo e 30% spinaci, soffritti con aglio olio, peperoncino, acciughe e burrata per rinfrescare.
È una cucina, quella di Danilo, che punta a coinvolgere i sensi di chi la mangia. Gioca con consistenze e sapori, colori, odori e temperature, così da stimolare naso, palato e vista ed essere ricordata. Lo insegna il dolce dell’ananas e il piccante dello zenzero nello “shortino” del tris di entrée. Il freddo della granita di pere a contrasto con l’ostrica cotta al forno con pomodoro fresco e formaggio. La morbida vellutata di ceci, compatte le vongole e croccante la chips di patata. La granita di rapa rossa che schizza il bianco degli scampi e il verde della panzanella.
«Ogni piatto ha una sua vita, una volta che ha raggiunto il suo apice, lo cambio e ne introduco uno nuovo. Per questo spesso, consigliamo i clienti a voce. La maggior parte degli avventori è qui della zona, ci conosce e si affida a noi - dice Danilo illustrandoci una carta di due pagine, scritte a mano, con 6 antipasti, 5 primi, 5 secondi e un menu degustazione di sette portate a sua scelta -. Per me è essenziale il rispetto del mare e della terra, coi loro tempi. Per questo seguo la stagionalità e la reperibilità dei prodotti, dagli asparagi ai garagoli (le lumachine di mare tipiche delle Marche), senza far magazzino. Lavoro quasi solo con il super fresco, giorno per giorno. I primi piatti sono i miei preferiti, lì cerco di dare il meglio di me. E anche se in alcuni momenti, pure io gioco con spume, cialde o gelatine, credo che sia l’anima di chi usa le padelle sopra ai fornelli a fare la forza di un locale».
Come è arrivato il successo? «Nei primi anni del Duemila passò di qui il giornalista Gianni Mura, ospite di un hotel della zona per il Giro d’Italia, e scrisse di noi su La Repubblica concludendo che fosse strano non fossimo segnalati da guide come Veronelli, Gambero Rosso e Michelin - racconta Danilo -. Da allora è cresciuto l’interesse nei nostri confronti e gli ispettori non sono tardati ad arrivare. Ma noi siamo rimasti un po’ atipici e controcorrente, dal sito statico all’insegna fuori dal locale che non si nota granché - conclude lo chef Danilo Bei, sorridendo su un aneddoto familiare -. Quando ho iniziato io poco più che ventenne a occuparmi del menu, mio padre si prefigurava avremmo chiuso le serrande in tre mesi. Tuttora preferisce il sardoncino fritto, perché - dice - riempirebbe di più il locale. È che siamo un’altra generazione».