Tutti parlano di “pesce azzurro” ma non tutti sanno esattamente cosa sia. Questa definizione non indica un preciso pesce ma una pluralità di specie ittiche, spesso neanche imparentate tra loro, ma accomunate da caratteristiche comuni. Non una denominazione scientifica, dunque, ma un’importante connotazione merceologica (poi divenuta gastronomica e nutrizionale).
I pesci considerati “azzurri” sono: acciuga (o alice), aguglia, alaccia, alosa, aringa, cicerello, costardella, lanzardo, menola, pesce bandiera (o spatola), sardina, sgombro, spratto, suro, alalunga, alletterato, biso, lampuga, palamita, pesce spada, tonno, tonnetto. In comune hanno anzitutto il colore azzurro del dorso, con varianti che vanno dal blu intenso al blu-grigio, al blu-verde, e argenteo del ventre. Sono tutti pesci economici, con un prezzo raramente superiore ai 10 euro al chilo e con una media sui 7 euro. Tanto che in Liguria le acciughe sono chiamate “pan du ma” (pane del mare) perché hanno risolto per secoli il problema della sopravvivenza. Fanno eccezione il pesce spada e il tonno. Di quest’ultimo, non a caso, i pescatori hanno sempre consumato le interiora e le parti meno pregiate più o meno come fanno i contadini con il maiale.
Il pesce azzurro viene pescato in tutto il Mediterraneo dove si trovano gli esemplari più pregiati (il nostro sgombro, per esempio, è decisamente migliore di quello atlantico). E ha un’importante caratteristica, si tratta di pesce pelagico, cioè vive in mare aperto dove minore è l’inquinamento e dove minore è il rischio dell’accumulo di mercurio (anche perché si tratta di specie di piccole dimensioni e con ciclo vitale breve).
Inoltre non viene allevato e sul banco del pescivendolo si trova sempre fresco e non decongelato: il suo prezzo molto basso non ammortizzerebbe i costi della conservazione. Queste considerazioni non valgono per il pesce spada e il tonno che si confermano pesci azzurri anomali e andrebbero, a mio avviso, esclusi dalla lista.