A lungo il dessert a fine o fuori pasto è stato un tabù, ora è la regola. Ci volevano le monoporzioni simili a gioielli per aspetto e fattura per scatenare l’egoismo e l’impulso tipico del food esperenziale, di cui oggi il dessert è forse il miglior ambasciatore. I pasticceri quindi sono diventati come gli chef stellati, ma al ristorante si fa ancora fatica a vendere il dessert. I motivi sono fondamentalmente due: la qualità dell’offerta e il prezzo. Per fare buoni dessert ci vuole un pasticcere in brigata e non tutti possono permetterselo; allora dall’opzione “make” si passa alla strada “buy”, che implica una scelta di fornitori innovativi e di qualità.
Insomma, la strada del fornitore di “meneghina” o “torta della nonna” non è più percorribile, quando oggi potete comprare i dolci di Biasetto o di Sal Di Riso, o aiutarvi con prodotti o preparazioni da assemblare. Esempi: un soft ice cream da personalizzare con tipi diversi di cioccolato, frutta secca, granelle; o la tartelletta di pasta frolla già pronta (anche surgelata) da riempire di crema, frutta, ecc. Il prezzo del dessert deve essere contenuto, giocare sull’impulso: ogni volta che fate riflettere il cliente davanti al menu vi avvicinate sempre di più a un rifiuto, la barriera psicologica ha il confine a 5 €, cifre superiori implicano se non il rifiuto, la condivisione del piatto tra più commensali. Nei Paesi anglosassoni per alzare lo scontrino si vendono dessert delle dimensione di una tapas o di uno shot a 2-3 €, perché a queste cifre il cliente prova, senza troppi ragionamenti. Dobbiamo abituarci a format di ristorazione in cui si parte dal dolce e si arriva al salato o almeno sapere che le due categorie sono facce di una stessa medaglia.