Spesso aspetta al tavolo. A volte arriva appena l’ospite si accomoda, a colmare l’attesa delle pietanze. In altri casi giunge solo dopo che il cliente ha scelto dal menu. Sono modalità di servizio differenti per il pane, che denotano altrettante scelte per quella che solo in apparenza è una delle proposte più basic di un ristorante.
Il pane - proposto nei modi più disparati, dal sacchetto di carta al vassoio di design, dal contenitore in paglia al tagliere di legno, al classico piattino individuale - è quasi sempre la prima cosa che l’avventore mette sotto ai denti, un “biglietto da visita” in grado di rivelare non poco sul locale e il tenore generale della proposta.
Ciò detto, la questione “pane” è spinosa, tanto più se abbinata a “coperto”: una voce abituale nel conto di moltissimi locali italiani, tranne che nella regione Lazio, dove ai ristoratori dal 2006 è fatto divieto di aggiungere al conto questa voce (che evidentemente il gestore “spalma” sul prezzo delle portate).
L’iniziativa laziale aveva probabilmente lo scopo di garantire trasparenza nei confronti dei clienti, andando incontro ai molti consumatori italiani indispettiti dal leggere in fondo al conto “pane e coperto”, nonché ai clienti stranieri, abituati a trovare nel conto la voce “servizio”, ma non “pane” (ad es. generalmente in Germania e Inghilterra il pane si fa pagare a consumo; in Francia nei menu fissi è compreso nel prezzo; in Lussemburgo non si paga pane e coperto, ma molti locali ne ricaricano il costo sul prezzo dell’acqua minerale).
In assenza di una regolamentazione nazionale, i ristoratori italiani - fatta salva l’eccezione di cui sopra - si regolano come meglio ritengono opportuno, ampliando o contenendo la varietà delle proposte panarie, producendo in proprio o acquistando sfilatini e affini, a volte calcolandola, a volte abolendo del tutto la voce “pane” dal conto. E i tre ristoratori che abbiamo interpellato sono testimoni di questa varietà di impostazione.
Felice Lo Basso (Resident chef Ristorante Unico, Milano): «Il pane è basilare in un ristorante italiano. Da Unico ne propongo 7 tipi: al parmigiano, alle olive, integrale a base di farina Petra 9, alle cime di rape e sesamo nero (con rape disidratate unite alla farina), focaccia pugliese, pane pugliese di semola, “lingua di suocera” alla cipolla e infine grissini di farina di riso. Il tutto accompagnato da 5 salse: burro salato di Normandia, tapenade di olive taggiasche, crema di pomodoro Pianogrillo, crème fraîche alla pasta di pistacchio di Bronte, formaggio fresco al naturale. Inoltre arriva in tavola con olio evo da Sorrento. È quasi una portata, che ha un foodcost di 4 euro circa e richiede molto lavoro. Per questo abbiamo deciso di servirlo senza conteggiarlo nel conto solo per chi ordina un menu completo o degustazione. Il lavoro è impegnativo: prepariamo l’impasto tre volte la settimana, precuociamo i pani per 7 minuti, li abbattiamo e ne completiamo la cottura per 9’ a ogni servizio».
Vittorio Fusari (Chef patron Dispensa Pane & Vini, Torbato di Adro - Bs): «Per me il pane è fondamentale, non solo come alimento, ma anche per i suoi valori simbolici. Non ne faccio molti tipi, ma tutti di alta qualità, con farine da coltivazione bio e lievito madre, da farina bianca e monococco, a basso tenore di glutine. Preparo anche la focaccia e i grissini con farina bio e sale di Cervia. Credo che sia giusto fare pagare il cestino del pane (ma una volta sola, anche se il cliente mi chiede il bis, circa 2,50 euro pane e coperto): una scelta fatta per metterlo in rilievo e attribuire valore agli ingredienti e al tempo che viene dedicato alla preparazione. Altrimenti, come tutte le cose che non si pagano, viene consumato senza affezione e senza alcuna attenzione.Chiaramente se il pane è buono il cliente lo divora in attesa di ordinare, così la nostra strategia è di portarlo insieme allo stuzzichino. Per me il pane è parte del pasto e deve essere servito insieme al resto, altrimenti il cliente non arriva a fine menu».
Theo Penati (Chef patron Ristorante Pierino Penati, Viganò Brianza - Lc): «Noto che il consumo del pane è leggermente salito (mediamente ogni cliente ne consuma 150 g). La sensazione è che negli ultimi anni ci sia stato un orientamento verso pani particolari, mentre ora si torna a fare il pane più semplice, meglio se con lievito madre. A pranzo faccio preparare la michetta dal nostro fornaio di fiducia. Internamente invece produciamo a rotazione focaccia all’olio, filone ai cereali, ciabatta soffiata, pane bianco, panini alle noci, ai pistacchi, all’uvetta, pane al grano arso, pane con farina di spinaci, con curcuma e pepe…Portiamo 5 o 6 tipi di pane a servizio, che cambiano in base ai menu e alla stagione. Finora il cestino del pane non è calcolato nel conto, per il futuro vedremo, dato che si tratta di una produzione impegnativa. Gli italiani lo considerano dovuto, ma per valorizzare il pane può essere necessario attribuirgli un valore economico, a maggior ragione se è fatto con materie prime di qualità».
Quale che sia la scelta, ci sono osservazioni utili che arrivano dal panificatore campione del mondo Ezio Marinato: «Noto che la generalità dei ristoratori si orienta verso il pane morbido: è più facile da gestire nella porzionatura e subisce meno la disidratazione rispetto al pane affettato. Ma una fetta di fragrante pagnotta, con un buon equilibrio fra parte morbida e croccante è in grado di dare grande soddisfazione alla vista e al palato; inoltre torna ad essere apprezzata dal consumatore attento, tanto più quando è realizzata con lievito madre, diventato di gran moda. Se non si sa panificare a dovere, meglio rivolgersi a un fornitore di fiducia, concordando l’uso delle farine e dei formati preferiti. Aggiungerei un suggerimento: perché non creare, come si fa negli hotel, un corner del pane? Un modo informale e differente per gestire il servizio di un buon prodotto».
Nella foto: il cestino del pane di Vittorio Fusari (foto di Ezio Zigliani)