Nella puntata finale di MasterChef 2017, l’invention test ha avuto come protagonista “l’alta cucina realizzata con gli scarti e gli avanzi del cibo”. Oggigiorno concetti come sostenibilità ed eliminazione degli sprechi sono popolari anche nella ristorazione. E l’uso innovativo delle parti meno nobili degli ingredienti (guai a parlare di scarti!) - dalle bucce di patata alle pelature di carote, dalle bratte più dure del carciofo alla pelle del pesce - è sempre più diffuso nei piatti della ristorazione d’avanguardia. Con un paradosso: la “povertà” della materia prima non si rispecchia quasi mai nel prezzo del piatto.
Se anche la tv sdogana l’alta cucina fatta con gli scarti, per i più “alta cucina” e “scarto” sono due concetti agli antipodi. È quindi legittimo domandarsi: come si concilia il concetto di alta cucina con l’uso di parti meno nobili dell’ingrediente? Come si comunica al cliente che il piatto così preparato può avere un alto valore aggiunto, che giustifica il prezzo elevato? Ancora: si può introdurre l’uso abituale delle parti meno nobili anche in un ristorante che non fa alta cucina e dove magari non ci sono il tempo, il personale o la preparazione per fare lunghe lavorazioni sugli ingredienti?
Già, perché la cucina con gli scarti non s’improvvisa. La possono fare cuochi del calibro di Bottura, Corelli, Perdomo e tanti altri, che fanno una bandiera dell’uso delle parti meno nobili di un ingrediente, perché da decenni ragionano e sperimentano.
Ma cominciamo dal concetto di materia prima “pregiata”. Oggi, ha obiettato Davide Oldani in occasione della manifestazione “In the mood for food”, è più chic mangiare riso della fattoria che produce con criteri particolari invece che caviale. Quanto al recupero: «Da 30 anni io uso tutte le parti commestibili di un ingrediente - dichiara -. Tutto quello che è vegetale è commestibile, quindi gli scarti non ci sono, non ci devono essere». La parola scarto a Oldani non piace. Al contrario, dice, bisognerebbe parlare di freschezza e il punto di partenza è la spesa: «Bisogna pensare prima di comprare e di cucinare», afferma. Per il dessert Banana invecchiata, Oldani usa anche la buccia della banana: fa “invecchiare” la banana con la buccia per 5 giorni a temperatura ambiente, per raggiungere il grado di maturazione voluto, per avere un profumo più intenso di banana e una maggiore dolcezza. E la serve con scaglie di sale Maldon.
Sulla stessa lunghezza d’onda è Igles Corelli, propugnatore della “cucina circolare”, in cui tutte le parti degli ingredienti vengono usate. «Intanto, non parliamo di scarti - dice -, ma di parti integranti del prodotto che danno il meglio di sé in funzione della ricetta che uno deve preparare». Un emblema della sua cucina circolare è il sedano. Le foglie non vengono buttate, ma essiccate e usate per aromatizzare il sale. I filamenti sono ideali da frullare insieme a riso stracotto per ricavare delle cialde saporite. La parte esterna, molto aromatica, serve per i brodi e i fondi. La parte tra l’esterno e il centro del gambo viene usata per i puré, il centro per le insalate. «Il fatto di usare tutte le parti di un prodotto e di esplorarne i possibili utilizzi stimola la creatività di chi cucina», dice lo chef.
Lo chef bistellato Claudio Sadler è anche direttore scientifico di Metro Academy e in questa veste ha proposto alcune ricette nate da ciò che in genere va sprecato. «Il fatto di gettare via delle parti di alimenti è dettato anche dai nostri riferimenti culturali, che tramandiamo e che diventano poi un’abitudine - spiega Sadler -. Di solito tendiamo a scartare alcune parti di alimenti, per esempio bucce di frutta e verdura, perché non li riteniamo abbastanza nobili, ma in molti casi si tratta solo di preconcetti». Sadler, per esempio, prepara un risotto con un “brodo” ricavato facendo bollire croste di Grana Padano e formaggio grattugiato.
Pietro Parisi del ristorante Era Ora di Palma Campania (Na) da anni porta avanti la sua idea di cucina del recupero. Spesso si tratta di riscoprire tecniche e saperi antichi in chiave contemporanea. Per esempio, Parisi usa l’acqua di scarto della mozzarella per far fermentare la pasta per la pizza: nulla di nuovo, a Napoli si chiama “lievito fuito”: i batteri lattici agiscono come un lievito. Tra gli altri impieghi creativi di Parisi, che si è formato alla scuola di Ducasse, citiamo il gambo del broccolo per ottenere il wasabi di friarello e con le bucce del pomodoro essiccate ottiene una polvere per aromatizzare il pane.
Ma come reagisce la clientela? «Qualche anno fa meno bene - ammette Parisi -, oggi invece riconosce la creatività contenuta nel fatto di usare, per esempio, le bucce di melanzana per ricavare una sorta di nero di seppia vegetale, ottimo per i vegani».
Anche Franco Aliberti, oggi al fianco dello chef nelle cucine dell’Agriturismo La Fiorida (So), ieri pasticcere con trascorsi da Bottura e a San Patrignano, è un veterano della cucina del recupero. «A La Fiorida abbiamo un occhio di riguardo per tutte le parti degli ingredienti, utilizzando per esempio le bucce per migliorare una crema di ortaggi o per aromatizzare brodi e infusi. L’utilizzo rimane però all’interno della cucina». L’uso degli scarti, dice Aliberti, ha motivazioni etiche, poi anche economiche, per controllare il food cost. Non solo: «Con un minimo di tecnica o visione, si può sperimentare e sviluppare qualcosa di interessante, è anche divertente», dice. Quanto all’accettazione da parte del cliente, bisogna distinguere tra cucina di casa e cucina professionale: in quest’ultima tecnologie all’avanguardia e manodopera con alte competenze tecniche permettono di dare valore aggiunto al piatto anche se si usano parti meno nobili di un ingrediente.