In principio erano le seconde linee. Giovani e accessibili. Oggi i locali figli di chef stellati, con identità precisa e vita a sé, non si sentono secondi a nessuno.
Ma riavvolgiamo il nastro dall’inizio. Uno dei primi è stato Claudio Sadler che nel 2007 lanciò Chic’n Quick che ancora oggi condivide la cucina con il ristorante stellato sul Naviglio e continua a macinare coperti. Simile per impostazione fu il Calandrino dei fratelli Alajmo
a Rubano (Pd), a fianco del tre stelle.
Negli anni, altri chef hanno puntato su posti lontani dalla sede principale, dove dettare la linea, da ultimi: Antonello Colonna con il suo Open Colonna a Milano e la coppia Negrini-Pisani arrivata con il brand Aimo e Nadia alle Gallerie d’Italia in piazza della Scala (con Vòce, caffetteria, bistrot e ristorante, premio Ristorante Rivelazione dell’anno 2019 ai nostri Barawards). Oggi i cuochi sembrano pronti per il passo successivo: l’industrializzazione del loro prodotto, ovvero un signature dish attorno a cui far ruotare un intero format, da sviluppare su scala nazionale o internazionale.
Ha iniziato in tempi non sospetti Moreno Cedroni (col Clandestino Susci Bar e poi con la prima salumeria di pesce al mondo, Anikò). Progetti simili, con prodotti chef-branded, sono oggi all’ordine del giorno. Pensiamo alle Bombe salate di Niko Romito o al Pan’Cot di Davide Oldani, concepito come un foglio bianco che può essere abbinato a carne, pesce e verdure, da accompagnare ai cocktail serviti al rinnovato Camparino in Galleria. Che sia questa la nuova strada della cucina democratica di lusso? Staremo a vedere.